Gli obiettivi della terapia psicoanalitica
Joseph Sandler e Anna U. Dreher, 1996
Per Freud, agli albori della psicoanalisi, il fine a cui mirava il trattamento era quello di “cu-rare” il paziente al fine di eliminare i sintomi dei quali soffriva correggendo i processi pato-logici sottostanti ad essi, anche se, già agli inizi, nutriva un certo pessimismo nella riuscita di questo obiettivo sostenendo che:
“… molto si sarà guadagnato se ci riuscirà di trasformare la Sua miseria isterica in una in-felicità comune. Contro quest’ultima Lei potrà difendersi meglio con una vita psichica risa-nata (1892 – 95).”
La questione degli obiettivi della psicoanalisi si muove attorno all’interrogativo se la psico-analisi sia una terapia o un metodo scientifico inteso ad indagare l’apparato psichico e che incidentalmente può risultare terapeutico. Nella loro risposta gli autori, indipendentemente dalle affermazioni di ognuno, sostengono che, ne siano consapevoli o no, il lavoro di ogni analista è sempre influenzato da scopi terapeutici, anche quando la posizione teorica ap-pare così distante fra di essi. Se le loro formulazioni sembrano così distanti, è sorprenden-te constatare come essi risultano molto più vicini nella comprensione clinica e nella pratica psicoanalitica. Ciò è dovuto al fatto che accanto alle loro teorie esplicite, solitamente quel-le ufficiali, convivono anche delle teorie implicite che si formano al di fuori della coscienza, che sono schemi estremamente incompleti ma che tuttavia coesistono felicemente fintanto che sono inconsci e ai quali ci riferiamo senza rendercene conto ogniqualvolta lo sentiamo necessario. È probabile che tali teorie implicite si somiglino maggiormente e che siano più pragmatiche di quelle esplicite. Oltre alle teorie e ai modelli ufficiali lo psicoanalista si rife-risce a regole inconsce di comportamento che sono il frutto di valori ed attitudini che riflet-tono la propria personale esperienza e che subisce l’influenza dell’ambiente sociale nel quale è cresciuto. Questo discorso è particolarmente importante per mettere in rilievo co-me i valori e la struttura di personalità dell’analista è sempre operativa e influenza il pro-cesso terapeutico in qualsiasi momento, rendendo estremamente complesso quello che dovrebbe essere il suo atteggiamento neutrale nel suo contatto con il paziente, specie nel-le sue reazioni controtransferali in relazione al materiale che il paziente gli porta in seduta. Pur con tutte le limitazioni dovute alla consapevolezza che l’analista ha dei fattori cognitivi ed emotivi che influenzano il suo giudizio, è più appropriato parlare di controllo cosciente anziché di neutralità.
Dopo che Freud abbandonò la tecnica catartica per riportare alla luce i ricordi che, allora, egli considerava rimossi in seguito ad un trauma ed elaborò la tecnica interpretativa dei desideri e delle fantasie inconsce contenute nel sistema Inconscio, l’obiettivo di conoscen-za della ricerca psicoanalitica si accompagnò a quello della terapia.
“Sempre meno importanza veniva attribuita al concetto di “cura”, mentre si sottolineava maggiormente il processo dell’analisi in sé e lo scopo di rendere conscio ciò che è incon-scio.”
Tuttavia Freud ha sempre tenuto presente che non era la traduzione al paziente di ciò che in lui è inconscio a produrre un cambiamento psichico, se ciò non si fosse accompagnato al costante e continuo lavoro teso a eliminare le resistenze che si esprimono nella situa-zione presente sulla figura dell’analista, promuovendo una nuova edizione della “prece-dente malattia” (nevrosi di transfert) nell’ambito della relazione terapeutica, fino a giungere alla “risoluzione del transfert” che rappresenta l’obiettivo principale dell’analisi. Freud stes-so nel 1922 afferma che:
“L’eliminazione dei sintomi morbosi non viene perseguita come meta particolare, ma si produce con l’esercizio regolare dell’analisi quasi come un risultato accessorio.”
Con l’introduzione del modello strutturale l’Io rappresenta l’istanza che media tra le richie-ste dell’Es, del Super-Io e del mondo esterno. Le finalità del trattamento consistono nel produrre dei cambiamenti nell’Io del paziente in modo tale che riesca ad acquisire una maggior libertà dai suoi “tre padroni”, l’Es, il Super-Io e la realtà esterna, rendendolo più indipendente da essi. In “Analisi terminabile e interminabile” (1937) Freud sostiene che:
“Il nostro obiettivo non dovrà essere quello di livellare tutte le specifiche particolarità indi-viduali a favore di una schematica “normalità”, o addirittura di pretendere che l’individuo “analizzato a fondo” non senta più alcuna passione e non sviluppi alcun conflitto interno. L’analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento del-l’Io; fatto questo, il suo compito può dirsi assolto.”
Negli autori contemporanei e successivi a Freud (Ferenczi, Rank, Sachs, Alexander, Strachey e Rado, per citarne alcuni) venne dato particolare rilievo alla necessità di rendere il Super-Io del paziente più indulgente nei confronti dell’Io, adottando come suo ideale dell’Io quello proposto dall’analista, consentendo all’Io di essere più libero dall’ansia ripristinando la sua “funzione sintetica”. Altri autori (Glover, Bibring) considerano che l’obiettivo di una analisi venga rappresentato come un cambiamento nelle reciproche relazioni tra le diverse istanze mentali, sottolineando il bisogno di rafforzare l’Io debole considerandolo l’oggetto principale dell’influenza dell’analisi.
[(Per R. Wallerstein la questione degli obiettivi viene ad intrecciarsi con la teoria della tecnica (come funziona e attraverso quali procedure la terapia psicoanalitica consegue i suoi obiettivi), come valutarne i risultati e quali siano i criteri per stabilire la conclusione del trattamento. Egli coglie un apparente paradosso nello strumento tecnico che contraddistingue un corretto atteggiamento psicoanalitico, cioè la mancanza di obiettivi che essa dichiara (l’analista si astiene da aspettative coercitive), in contrapposizione con l’obiettivo più ambizioso che essa si pone, quello di riorganizzare la struttura di personalità del paziente. In questa dicotomia l’autore tende a distinguere il criterio terapeutico (l’esito, come la remissione dei sintomi) da quello psicoanalitico (il processo, teso ad ottenere incidentalmente quei cambiamenti) della ricostruzione della personalità. L’apparente incongruenza è che si possono raggiungere gli obiettivi individuali di processo, senza che ci siano esiti, senza che cioè ci sia una remissione dei sintomi. N.d. C.)]
L’importanza della relazione tra l’individuo e il mondo esterno venne, invece, riconosciuta da Michael Balint per il quale il miglioramento nelle relazioni del paziente rappresenta un obiettivo centrale dell’analisi. Anna Freud richiamò l’attenzione sulle misure difensive adot-tate dall’Io per far fronte non solo ai conflitti interni, ma anche in conseguenza delle intera-zioni dell’individuo con il mondo esterno, e quanto sia, quindi, importante l’analisi dell’Io. Particolarmente rilevante fu l’opera di Heinz Hartmann per il quale non tutte le funzioni dell’Io debbano essere considerate derivate da conflitti inconsci, ma che alcune di esse sono “apparati dotati di autonomia primaria” e che altre funzioni, seppure nate da un conflitto, acquisiscono un grado di “autonomia secondaria (il bambino può apprendere ad andare in bicicletta per soddisfare motivi esibizionistici, ma tale apprendimento diviene poi autonomo e viene messo al servizio dell’Io N.d:C.). Tali funzioni rappresentano la sfera dell’Io libera da conflitti e sono di straordinaria importanza in funzione dell’adattamento dell’individuo sia all’ambiente esterno che al conflitto interno. Se per Hartmann l’obiettivo dell’analisi è quello di ampliare l’area dell’Io libera da conflitti al fine di realizzare l’adattamento all’”ambiente mediamente prevedibile” (è bene sottolineare che per questo autore “la libertà dai sintomi non è sufficiente per la salute“, …”una persona sana deve avere la capacità di soffrire e di essere depressa” e che “una quantità limitata di sofferenza e malattia costituisce parte integrante dello schema della salute” N.d.C.), per Ernest Jones esso è rappresentato da una migliore capacità di adattamento, connessa all’acquisizione del più alto grado possibile di autonomia.
Nel periodo della seconda guerra mondiale Robert Knight (1942) elabora (per l’American Psychiatric Association) gli obiettivi della terapia psicoanalitica secondo dei precisi criteri:
Scomparsa dei sintomi attuali.
Effettivo miglioramento del funzionamento psichico:
a) acquisizione dell’insight, intellettivo ed emotivo, rispetto alle origini infantili del conflitto, alla parte giocata dai fattori precipitanti e da altri elementi di realtà, e alle strategie di difesa dall’angoscia che hanno prodotto quello specifico tipo di personalità e le peculiari caratteristiche del processo morboso;
b) sviluppo della capacità di tollerare,senza provare angoscia, le pulsioni istintuali;
c) sviluppo della capacità di accettare se stessi obbiettivamente con un’equilibrata
valutazione degli elementi di forza e di debolezza;
d) raggiungimento di una relativa libertà da tensioni e inibizioni che limitano lo sviluppo delle proprie capacità personali;
e) liberazione delle energie aggressive necessarie all’autoconservazione, al suc-
cesso, alla competizione e alla difesa dei propri diritti.
miglioramento dell’adattamento alla realtà:
a) relazioni interpersonali più significative e leali con oggetti ben scelti;
b) adeguato impiego delle capacità nell’ambito del lavoro;
c) migliore sublimazione nelle attività ricreative e negli hobby;
d) pieno funzionamento eterosessuale caratterizzato piacere e potenza.
Nonostante questo decalogo Knight era consapevole dei limiti dell’analisi stessa afferman-do che il paziente rimarrà essenzialmente la stessa persona, forse liberata dai suoi sintomi invalidanti o in grado di far fronte a quelli che gli rimangono, più adattabile, più produttivo, più felice nelle sue relazioni, ma, per quanto riguarda le sue caratteristiche di base, sem-pre la stessa persona.
Si pose, così, la questione ancora attuale della distinzione fra i concetti di stato ideale di salute mentale e di salute mentale “raggiungibile”, o dell’analisi terapeuticamente efficace contrapposta ad una analiticamente efficace (quindi sulla base dei sintomi la prima, sulla base di una maggior consapevolezza di sé la seconda N.d.C.). Kurt Eissler nel 1953 pose la questione del modello di base della tecnica psicoanalitica che stabilisce i “parametri” di esso, dove le deviazioni dal modello vengono considerati espedienti temporanei che devono essere interpretati. Le concettualizzazione di Eissler erano rese necessarie dall’ampliamento del campo di applicazione della tecnica psicoanalitica verso quelle situazioni cliniche che prima erano escluse dalla considerazione degli psicoanalisti e che spingevano verso un allontanamento dalla tecnica standard. La discussione che ne seguì definì anche i nuovi scopi legati a ciò di che ci si proponeva dall’analisi, adattati ai limiti e ai bisogni dei singoli pazienti, considerando l’analisi non come un metodo fisso da applicare indiscriminatamente e indipendentemente dalle condizioni del paziente. Non deve sorprendere che in questo contesto ogni terapeuta sviluppa una serie relativamente personale di criteri per gli obiettivi della terapia e della guarigione.
Sempre nell’ambito del dominio della psicologia dell’Io Hans Loewald nel 1960 aveva con-cettualizzato che:
“Il processo di cambiamento è messo in moto non solo dall’abilità tecnica dell’analista, ma dal fatto che l’analista si rende disponibile per lo sviluppo di una nuova “relazione ogget-tuale” con il paziente.”
Tuttavia le sue affermazioni vennero riconosciute solo più tardi.
Nello stesso anno Glueck, pur stabilendo che la terapia psicoanalitica si differenzia dalle psicoterapie non analitiche in quanto nella psicoanalisi l’obiettivo principale consiste nel-l’eliminare nel paziente il bisogno di creare sintomi, differenzia tra gli obiettivi immediati, prossimi, dagli obiettivi distanti, finali. Questi ultimi consistono nel permettere al paziente di raggiungere una più completa e profonda conoscenza di sé stesso e secondariamente ad aiutarlo ad ottenere una più completa realizzazione di sé liberandolo da paure e angosce inibenti. Il terzo obiettivo della terapia psicoanalitica è quello di condurre il paziente ad una accettazione di sé soddisfacente e sintonica, la migliore possibile per quel dato individuo in quella data situazione.
Anche Wallerstein (1965) distingue fra gli scopi idealizzati dagli obiettivi conseguibili. Per Winnicott scopo dell’analisi è di sviluppare quello che egli chiama il “vero Sé”, in quei pa-zienti in cui esso è rimasto nascosto o è stato deprivato.
Robert Waelder (1960) aveva posto la questione di quando un trattamento analitico possa considerarsi concluso, dato che “tale momento non coincide necessariamente con il com–pletamento dell’analisi”. Egli sosteneva che:
“Indipendentemente dalla completezza, un’analisi dovrebbe essere terminata quando si raggiunge il punto in cui i costi superano i benefici, cioè quando ulteriori risultati anticipabili non sembrano giustificare il tempo e lo sforzo che si dovrebbero ancora spendere. Tale questione va attentamente valutata tenendo conto di molti fattori.”
Nel 1970 Loewald esprime nuovamente l’importanza fondamentale dei legami oggettuali, come fattori non semplicemente regolatori, ma essenziali e costruttivi nella formazione del-la struttura psichica. Egli mette in risalto l’importanza dell’interazione tra analista e pazien-te e come nel campo psichico che si viene a creare avvengano esternalizzazioni e inte-riorizzazioni tali il cui insight, durante la terapia, è fondamentale per modificare gli aspetti arcaici dell’organizzazione psichica del paziente.
L’anno successivo Heinz Kohut pubblica “L’analisi del Sé” che rappresenta il manifesto della scuola di pensiero che va sotto il nome di “psicologia del Sé”, nel quale espone le sue idee sull’analisi riuscita quando, nel corso del trattamento, l’analizzando sarà in grado di riattivare in una traslazione d’oggetto-Sé, i bisogni del Sé che erano stati frustrati nel-l’infanzia (L’oggetto-Sé rappresenta l’esperienza soggettiva di un’altra persona che ha la funzione di sostegno per il Sé nell’ambito di una relazione, evocando e mantenendo il Sé e l’esperienza del Sé mediante la sua presenza o attività. In questo senso l’oggetto-Sé è la rappresentazione della funzione che l’oggetto svolge in funzione del Sé e ne gratifica i bisogni primari N.d.C.). Per Kohut
“L’essenza della guarigione psicoanalitica risiede nella nuova capacità del paziente di identificare e trovare oggetti-Sé appropriati … e di essere sostenuto da essi.”
Secondo William Meissner il difetto che hanno provocato le carenze genitoriali può venire compensato attraverso l’interazione con un oggetto-Sé empatico che fornisce una “nuova esperienza correttiva” (viene così definita la terapia psicoanalitica come una “terapia sup-portiva” che si allontana dall’obiettivo della conoscenza di Sé N.d.C.).
Otto Kernberg dissente da Kohut, anche se per quest’autore il trattamento dei casi border-line e narcisistici debba essere modificato in una forma che lui definisce “psicoterapia es-pressiva” il cui approccio presuppone l’analisi immediata dei transfert primitivi, fintantoché non evolvano in transfert più maturi. L’analisi del transfert deve in questi casi limitarsi ai passaggi all’atto e ai conflitti presenti nella realtà specifica del paziente che ne minacciano l’esistenza. Lo scopo del trattamento è di ottenere un miglioramento nel modo distorto di funzionare dell’Io, facendo i conti con i gravi difetti del proprio passato, accettando realisticamente il fatto che altre persone possono avere ciò che il paziente potrebbe non riuscire mai ad ottenere.
Ernst Ticho (1972) sostiene che la psicoanalisi sia un metodo terapeutico che mira ad eli-minare le cause che hanno portato alla distorsione e all’interruzione del processo evoluti-vo, affinché tale sviluppo possa riprendere. (Per Sandler tale sviluppo non può essere mai fatto ripartire, piuttosto il paziente potrà sviluppare nuove strutture psichiche che riflettono soluzioni diverse al conflitto interno che sono più adattive rispetto alle precedenti. Nell’analisi non “disfiamo” i modi di funzionare precedenti, semmai aiutiamo l’Io del pa-ziente a trovare nuove soluzioni che possono offrirgli un maggior grado di autonomia, di-minuire il suo disagio e, si spera, renderlo più felice. Se si verifica un cambiamento sinto-matico, le strutture sottostanti al sintomo non vanno perdute: semplicemente, il loro uso viene sospeso. In quest’ottica, in cui gli introietti del Super-Io sono considerati “strutture” mentali, non cambiamo gli oggetti che costituiscono il Super-Io, bensì la relazione dell’Io con gli introietti esistenti nel Super-Io. Elizabeth Spillius fa notare come l’obiettivo analitico non sia quello di “riparare” l’oggetto, ma molto più appropriatamente produrre un cambia-mento nell’atteggiamento riguardo alla relazione con l’oggetto. Le nuove soluzioni permet-tono al paziente di raccogliere all’interno della rappresentazione del Sé gli aspetti del suo Sé che erano divenuti inaccettabili durante lo sviluppo delle sue relazioni oggettuali in-terne. N.d.C.)
L’influenza esercitata da questi autori determina l’affievolirsi delle concezioni che la psico-logia dell’Io aveva esercitato sulla psicoanalisi. Apporti fondamentali alla teorizzazione dei meccanismi psichici vennero dagli studi di osservazione del bambino, in particolare dai contributi di Margaret Mahler, Anna Freud, E. Erikson, R. Spitz, D. Winnicott e M. Klein. La Mahler sottolinea i precoci processi nello sviluppo della capacità del bambino di ope-rare la separazione-individuazione e di come l’analisi debba, tra i suoi obiettivi, includere la riattivazione e la rettificazione di quei processi che erano stati ostacolati durante lo svi-luppo.
Negli anni ’80 vi è il tentativo di aprire un dialogo fra sostenitori di diverse posizioni anali-tiche e si manifestò il bisogno di considerare le opinioni diverse dalle proprie, attraverso la presentazione e discussione del materiale clinico di analisti con diversi orientamenti. Se negli anni precedenti il criterio che veniva stabilito per valutare il cambiamento era del tipo strutturale (il miglioramento dell’esame di realtà, il raggiungimento di livelli più elevati di funzionamento psichico, il cambiamento comportamentale, il raggiungimento dell’insight, ecc), ora le considerazioni vertono sulla “restaurazione di un Sé coeso” o “l’essere ciò che si è” (che tutto sommato, quantunque espresse in un’altra forma, con cambiano sostanzialmente la questione delle finalità della terapia analitica N.d.C.) anche se i modi per raggiungere questi obiettivi e le tecniche adottate differiscono notevolmente. I criteri di guarigione seguono le basi teoriche a cui gli analisti fanno riferimento, per cui se gli psicologi dell’Io sottolineano il cambiamento della struttura psichica basato sulla risoluzione del conflitto e sull’interiorizzazione, gli psicologi del Sé intendono le modificazioni strutturali nei termini di interiorizzazioni mutevoli che favoriscono una rinnovata crescita psichica, mentre i promotori delle relazioni oggettuali attribuiscono il maggior rilievo ai cambiamenti del mondo rappresentazionale interno e alle corrispondenti relazioni più adattive con il mondo esterno. Al di là delle differenze teoriche si fa strada l’idea che sia la situazione clinica a costituire il “terreno comune” e come sostiene Etchegoyen:
“… sebbene il tema dei fattori di guarigione ci porti inevitabilmente ai più complicati pro-blemi teorici della nostra disciplina e al punto in cui le scuole sono maggiormente a con-fronto, è anche vero che nella pratica della stanza di consultazione c’è un accordo abba-stanza ampio e sorprendente riguardo la valutazione dei progressi del paziente.”
In un convegno a Roma nel 1989 Milton Viederman poté affermare che:
“Il fatto che risultati soddisfacenti nell’analisi possano verificarsi con analisti che hanno convinzioni teoriche estremamente diverse può essere compreso sulla base dell’interioriz-zazione del dialogo tra analista e paziente che, anche se guidato da un modello teorico, è fortemente influenzato dalle speciali qualità della loro relazione.”
Di conseguenza i concetti teorici hanno assunto qualità di strutture utili per il lavoro analiti-co più che di “assoluti”. Cresce l’attenzione verso gli obiettivi intermedi. Nel 1987 L. Ran-gell così riassume le tappe del processo analitico:
1) il magazzino di ricordi consci si amplia;
2) gli aspetti traumatici dei ricordi rimossi sono ammessi alla coscienza e contenuti dalle
funzioni di osservazione e valutazione dell’Io del paziente;
3) i contenuti traumatici sono esposti, compresi, abreagiti, padroneggiati ed elaborati. Il
loro incoercibile potere diminuisce e l’Io diventa più libero;
4) in conseguenza della riduzione degli aspetti traumatici del passato, l’Io, tramite azioni
di prova, sperimenta meno di frequente segnali di angoscia;
5) vi è un minor bisogno delle difese e i segnali di sicurezza si manifestano più frequente-
mente. I cambiamenti conducono a una nuova libertà dell’Io, il quale “sviluppa maggior
capacità di tollerare angoscia e frustrazione. Il che si manifesta nel nuovo modo di af-
frontare i processi psichici.
6) l’autonomia dell’Io si espande e l’Io ha maggior libertà di scelta;
7) tutte le strutture psichiche si modificano in meglio e in maniera più adattiva. Così “il
Super-Io diviene una composizione interna più in sintonia con l’Io e con la cultura”;
8) anche l’Es cambia;
9) da questi cambiamenti deriva una migliore rappresentazione di sé all’interno dell’Io.
L’Io ha maggiore “autonomia relativa”;
10) si rinuncia ai vantaggi secondari in conseguenza di un’ulteriore “elaborazione”.
Mentre per i teorici delle “relazioni oggettuali” viene attribuita molta importanza all’intera-zione tra paziente e analista con l’obiettivo di modificare la relazione del paziente con il Sé e con gli oggetti sia esterni che interni, nella prospettiva kleiniana lo scopo dell’analisi e quella di consentire al paziente di recuperare le parti scisse del Sé su cui aveva agito l’identificazione proiettiva, divenendo più consapevole della separazione fra Sé e oggetto e affrontandone il lutto.
Nella formulazione di J. e A.M. Sandler (1983):
“Scopo dell’analista è che il paziente arrivi ad accettare gli aspetti di sé legati a desideri in-fantili che hanno causato un conflitto doloroso e che sono diventati minacciosi nel corso dello sviluppo. Di conseguenza egli cerca di portare il paziente a tollerare i […] derivati di queste parti di sé nei suoi pensieri e nelle sue fantasie consce. In altre parole, uno scopo analitico fondamentale è quello di portare il paziente a fare amicizia con le parti di sé che prima erano inaccettabili, e ad andare d’accordo con i desideri e le fantasie che prima era-no minacciosi. Per fare questo l’analista deve fornire, tramite le sue interpretazioni e la sua maniera di esprimerle, un’atmosfera di tolleranza di tutto ciò che è infantile, perverso e ridi-colo, un’atmosfera che il paziente possa fare propria nel suo atteggiamento verso sé stes-so, che possa interiorizzare insieme alla comprensione che raggiunge nel suo lavoro con-giunto con l’analista.”
Scopo dell’analisi non è la scomparsa dei conflitti ma il raggiungimento di formazioni di compromesso più efficaci e adattive. (L’inconscio passato è escluso dal raggio di azione del processo analitico. I suoi derivati invadono l’inconscio presente sotto forma di transfert e questo permette nuovi adattamenti dell’apparato psichico nel presente). Alcuni adatta-menti patologici divengono autonomi (tratti del carattere) rispetto ai conflitti specifici che li hanno originati e, dunque, non possono essere corretti dall’analisi.
Da quanto si è detto risulta, per quanto ci siano stati dei tentativi di superare le barriere teoriche fra scuole diverse di pensiero, che non esiste una formulazione univoca del con-cetto dell’obiettivo a cui tende una terapia psicoanalitica. Oltretutto, le opinioni prevalenti in una dato contesto storico e culturale tendono ad influenzare che cosa si debba intendere per obiettivo, costituendo i paradigmi prevalenti in una data epoca modificandone le pros-pettive. Partendo da Freud, per il quale la finalità terapeutica era quella di guarire i pazienti dai sintomi, l’obiettivo divenne l’applicazione stessa del metodo, dove la “guarigione” veni-va considerata come un sottoprodotto incidentale dell’analisi, fino a farne un metodo di ri-cerca senza altro scopo che quello di rendere l’inconscio cosciente e accettabile per il pa-ziente. Tuttavia il metodo, pur essendo caratterizzato da una relativa mancanza di obiet-tivi, era considerato curativo. In una rassegna del 1990 fatta da E.M. Weinshel, egli so-stiene che si parli raramente di “guarigioni” psicoanalitiche, che il conflitto psichico non può essere completamente eliminato, né si crede più che sia possibile un’analisi “completa”, né che il transfert possa essere completamente eliminato o risolto. Pur considerando l’in-sight un obiettivo, non lo si ritiene più un requisito assolutamente necessario senza il quale l’analisi non può procedere e inoltre il recupero dei ricordi infantili rimossi non è più lo scopo fondamentale del lavoro analitico. Ciò che attualmente rappresenta l’obiettivo dell’analisi è di produrre cambiamenti intrapsichici che agevolino la soluzione dei principali conflitti del paziente. L’interrogativo che come analisti possiamo porci è il perché dovrem-mo desiderare di raggiungere quel particolare obiettivo con quel particolare paziente.
“La consapevolezza del fatto che gli obiettivi generali non possono venire formulati in ma-niera automatica e uniforme per tutti i pazienti ha fatto nascere la necessità di considerare gli obiettivi in relazione al singolo paziente.”
La formulazione in termini di obiettivi di riuscita finale, intesi come eventi osservabili o me-tapsicologici (es. diminuire la severità del Super-Io, promuovere l’autonomia dell’Io, miglio-rare il controllo degli impulsi istintuali, accrescere le capacità di sublimazione, ecc), non ha risolto il problema di trovare un’adeguata definizione generale degli obiettivi. S’è cercato di risolvere il problema definendo gli obiettivi di “processo”, iniziando a definire gli obiettivi nel momento diagnostico comparandoli con quelli relativi al termine dell’analisi. La questione, tuttavia, si complica poiché non è così certo che obiettivi della terapia psicoanalitica siano stati raggiunti al momento in cui si termina l’analisi.
“I criteri per il termine di un’analisi e per il raggiungimento degli obiettivi non sempre chia-ramente coincidono. … Gli obiettivi di trattamento sono inestricabilmente legati agli obiet- tivi “di vita” del paziente e, aggiungeremmo, anche a quelli dell’analista. Essi sono sia con-sci sia inconsci e, se quelli del paziente e dell’analista coincidono, possono costituire un si-stema di valori mutuamente accettato, all’interno del quale l’analisi viene condotta (per es. quando entrambi attribuiscono molto valore al successo economico o all’avere figli). Tale nucleo condiviso di valori può venire esaminato solo quando si verifica un conflitto di valori tra analista e paziente, altrimenti diviene inanalizzabile.”
Secondo Sandler l’analista, prima ancora di incontrare il paziente, ha in mente tutta una gamma di obiettivi, alcuni consci o comunque accessibili alla coscienza (descrittivamente preconsci), mentre un gran numero di essi saranno inconsci e inaccessibili all’analista sen-za un suo lavoro di autoanalisi. Quando, poi, l’analista incontra il paziente avrà a disposi-zione l’intera gamma di obiettivi e si renderà conto sia delle ragioni consce per cui il pa-ziente desidera l’analisi, sia degli obiettivi analitici inconsci del paziente. L’analista si farà un’idea della personalità, della psicopatologia e della struttura mentale del paziente e di quanto sia adatto al lavoro d’analisi.
“Tutti questi elementi hanno senza dubbio un’influenza sulle idee (consce e inconsce) che l’analista si forma in merito ai cambiamenti che possono costituire gli obiettivi conseguibili nel lavoro con quel particolare paziente. E’ possibile affermare, inoltre, che nell’iniziale contatto dell’analista con il paziente, la relazione tra la sua gamma interna di obiettivi e ciò che è conseguibile modifica automaticamente lo spettro dei possibili obiettivi di trattamento con quel paziente, e che la selezione degli obiettivi sarà diversa per ogni paziente. E’ im-portante sottolineare che tale selezione progressiva avviene anche se l’analista non for-mula coscientemente alcuna idea sugli obiettivi del trattamento di quel paziente, e anche se consciamente ritiene che gli analisti non debbano avere alcun obiettivo nell’analisi se non quello di applicare il metodo analitico.”
Fa parte della normale pratica analitica evitare di manifestare al paziente la propria idea sugli obiettivi dell’analisi o fornire indicazioni o promesse che l’analisi produrrà un qualche tipo di cambiamento specifico in quel paziente. Durante la fase iniziale della terapia l’ana-lista pone maggior attenzione sugli aspetti di processo o immediati per aiutare il paziente a “entrare” in analisi, affrontando le sue angosce iniziali e le sue resistenze. Man mano che il lavoro progredisce l’analista può cominciare a pensare a obiettivi auspicabili di cambia-mento interno (per es. diminuzione della colpa, aumento della tolleranza verso certe emo-zioni, ecc,) come anche a cambiamenti esteriori (per es. scomparsa dei sintomi, migliore capacità di lavorare, ecc). Anche quando si prospettano degli obiettivi di riuscita finale, gli obiettivi di processo non vengono mai accantonati durante l’intera analisi. L’analista dovrà avere sempre presente ciò che è possibile per quel paziente ed essere pronto a modifica-re gli obiettivi a mano a mano che il lavoro procede. Tali cambiamenti riguardano sia gli o-biettivi di processo sia quelli di risultato. Ciò riguarda anche i cambiamenti che nel corso del trattamento possono verificarsi nel paziente riguardo agli obiettivi che desidera ottene-re mediante l’analisi, in quanto anche i suoi scopi di vita possono modificarsi.
Gli obiettivi di riuscita finale assumono maggior rilievo quando compare la questione del termine dell’analisi. L’analista inizierà a prendere maggiormente in considerazione la realtà dello stato del paziente e la sua situazione. Il criterio per poter prendere una decisione ponderata risponde all’interrogativo:
“Può, il paziente, con tutte le sue peculiarità e i suoi limiti, nella situazione di realtà in cui si trova, cavarsela più o meno bene senza ulteriore analisi?”
A questo interrogativo devono dare risposta sia l’analista che il paziente nel loro dialogo. In ogni caso non ritenendo che un’analisi possa ritenersi compiuta è più utile adottare un atteggiamento che lasci la “porta aperta” per consentire al paziente di poter tornare. Acquista importanza anche quella che viene definita una “funzione auto-analitica” che consente all’analisi di progredire anche dopo la conclusione.
Paziente e analista lavorano insieme nel corso dell’analisi:
“… per arrivare a selezionare i criteri di salute mentale che rappresentano lo stato di ‘salute mentale’ specifico per il paziente nella sua particolare situazione di vita, prendendo in considerazione tutte le sue peculiarità e i suoi limiti e anche il suo contesto socio-culturale.”
Lo stato di salute mentale risulterà da ciò che può essere considerata una continua nego-ziazione conscia e inconscia tra i due partner che condividono il lavoro analitico.
“Gli psicoanalisti lavorano con strutture implicite e teorie “private” che non sempre corris-pondono alle teorie “pubbliche” o accettate.”