AUTORI E TEORIE ESSENZIALI SULLA DEPRESSIONE

KARL ABRAHAM (1911)

Per Abraham la depressione si instaura in seguito ad un conflitto di ambivalenza (odio e amore verso l’oggetto), ed è provocata dalla rimozione di un affetto, quello dell’odio, che è seguita dalla proiezione dell’affetto verso gli oggetti per lui più significativi. Se il contenuto delle percezioni è rimosso e proiettato all’esterno, il paziente si fa l’idea di non essere amato dal suo ambiente, ma odiato. Questa idea viene distaccata dal suo contesto causale, l’atteggiamento d’odio del soggetto e viene collegata con altre deficienze psichiche e fisiche (gli autorimproveri del paziente depresso). La mania si instaura quando viene abolita la rimozione e vengono abolite le inibizioni degli istinti, che caratterizzano la fase depressiva.

SIGMUND FREUD (1917)

Gli aspetti distintivi della melanconia sono un abbattimento profondamente doloroso, la cessazione dell’interesse per il mondo esterno, la perdita della capacità di amare, l’inibizione di ogni attività e un abbassamento della considerazione di sé che si esprime con autorimproveri e autoavvilimento per culminare con un’aspettativa delirante di punizione.

Come nel lutto anche la melanconia può essere una reazione alla perdita di un oggetto amato, nel senso che è stato perduto come oggetto d’amore, anche se tale perdita è sottratta alla coscienza. Se nel lutto è il mondo che è diventato povero e vuoto, nella melanconia è l’Io stesso che viene rappresentato come inutile e spregevole. Ciò che colpisce è che i sentimenti di vergogna per questo suo stato di indegnità, mancano o sono poco rilevanti nel melanconico. Spesso le più violente autoaccuse del melanconico difficilmente si potrebbero applicare al paziente stesso, ma si  adattano

ad una persona che il paziente ama o ha amato o dovrebbe amare.

Tali rimproveri sono rimproveri diretti ad un oggetto amato, che sono stati deviati sull’Io del paziente. Essi non si vergognano poiché quel che di degradante dicono di sé, in fondo si riferisce a qualcun altro. L’attaccamento libidico che esisteva verso quella persona non è stato spostato su un nuovo oggetto, bensì è stato ritirato nell’Io, dove si è stabilita una identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato. 

Le scelte oggettuali fatte dai depressi sono effettuate su una base narcisistica, cosicché una perdita oggettuale si trasforma in una perdita dell’Io, e l’Io viene trattato come se fosse l’oggetto

abbandonato. Attraverso l’autopunizione questi pazienti riescono a vendicarsi dell’oggetto originario e a tormentare la persona amata mediante la propria malattia, alla quale ricorrono per non esprimere apertamente la loro ostilità.

La tendenza della melanconia a trasformarsi in mania dimostra come il soggetto maniacale si libera dell’oggetto che era la causa della sua sofferenza, ricercando come un affamato nuove cariche oggettuali.

  SANDOR RADO (1928) 

In completo contrasto con la loro auto denigrazione per Rado tali pazienti sono ben lungi dall’assumere un atteggiamento di umiltà, al contrario sono molto molesti e si comportano come se si sentissero offesi o fossero stati trattati molto ingiustamente. La fase acuta della melanconia è regolarmente preceduta da un tale periodo di ribellione arrogante e aspra.

Nell’Io di queste persone sono rintracciabili alcune caratteristiche:

una brama violenta e intensa di gratificazione narcisistica e una intolleranza narcisistica notevole;

si affidano completamente agli altri, da cui dipendono per il mantenimento della loro autostima;

la scelta oggettuale del melanconico corrisponde al tipo narcisistico, per cui per accrescere il rispetto di sé essi debbono attrarre una gratificazione narcisistica dall’esterno;

tali persone debbono continuamente sollecitare il favore degli oggetti della loro libido e di cercare in loro costanti conferme. Quando sono sicure dell’affezione del loro oggetto libidico, hanno verso di esse un atteggiamento egoistico e tirannico, diventando sempre più possessive e autocratiche. Tutto questo avviene senza che la loro facoltà autocritica se ne renda conto. Di conseguenza reagiscono con aspra veemenza alla minaccia di ritiro d’amore e sentono la perdita finale dell’oggetto come la massima ingiustizia del mondo.

Questo è il processo che precede il rivolgimento delle tendenze aggressive contro il proprio Sé. L’attacco depressivo è visto come un grido disperato che chiede amore, determinato da una perdita effettiva o immaginaria che il paziente sente pericolosa per la sua sicurezza emotiva (e materiale). Rado considera che il paziente depresso sia rimasto fissato alla fase orale. Rimproverando e punendo se stesso per la perdita sofferta, egli desidera riconciliarsi con la madre e reinstaurarsi in seno alle sue cure affettive. L’immagine che guida il pentimento del paziente è la sicurezza emotiva ed alimentare di cui godeva quando era un lattante attaccato al seno nutriente della madre. Tuttavia questo ravvedimento è complicato dalla contemporanea presenza di un forte risentimento. Quando il paziente sente che la sua rabbia dominatrice è sconfitta allora la rabbia si rivolge all’interno, accrescendo la sua veemenza negli autorimproveri e con le autopunizioni. L’intero processo depressivo va interpretato come un  processo di riparazione mal realizzato.

   EDOARDO WEISS (1944) 

Weiss distingue una depressione di tipo “semplice” o “essenziale” da un tipo “melanconico”. La prima è caratterizzata da una diminuzione dell’intensità dell’esperienza di sé dell’individuo; egli è meno desto e il mondo esterno gli arreca un significato molto meno intenso che non alle altre persone. La libido è fissata ad un oggetto o ad uno scopo che è respinto ma non può essere abbandonato, e questa lotta esaurisce la libido della persona.

Nella depressione “melanconica” il narcisismo del paziente è danneggiato nella maniera più ovvia. Di conseguenza le caratteristiche principali della depressione melanconica sono la perdita dell’autostima e il successivo sviluppo di un odio di sé e di autoaccuse dovute a sentimenti di colpa e di inferiorità a prescindere da quella che può essere la particolare origine di tali sentimenti.

La depressione semplice è determinata dall’esaurimento della libido dell’Io dovuta ad un conflitto insolubile (l’Io è vuoto), mentre nella depressione melanconica è dovuta ad un odio di sé in conseguenza di una vasta perdita dell’autostima mediante il respingimento. 

Nella depressione di tipo melanconico le accuse sono realmente rivolte a sé stessi per un senso di inferiorità e non perché rivolte all’oggetto con cui la persona si è identificata.

 OTTO FENICHEL (1945) 

La depressione si instaura in persone che sono fissate ad uno stato in cui la loro autostima è regolata da appoggi esterni. Se i loro bisogni narcisistici non sono soddisfatti la loro autostima diminuisce in modo pericoloso. Esse tendono a reagire alle frustrazioni con violenza, dall’altro la loro dipendenza orale li costringe a cercare di ottenere ciò di cui hanno bisogno ingraziandosi gli altri e con la sottomissione. La loro dipendenza amorosa li porta ad essere incapaci di amare attivamente, essi hanno un bisogno passivo di sentirsi amati. Tali persone sono caratterizzate da una scelta oggettuale di tipo narcisistico. Senza prestare la minima considerazione ai sentimenti degli altri, reclamano considerazione per i propri sentimenti.

Le depressioni nevrotiche sono tentativi disperati di forzare un oggetto a dare gli appoggi necessari per vivere, mentre nelle depressioni psicotiche ha già avuto luogo una perdita concreta totale e i tentativi mirano ad ottenere l’appoggio del Super-Io.

Il paziente depresso, che in apparenza è così estremamente sottomesso, in realtà spesso riesce così bene a dominare tutto il suo ambiente. L’ostilità verso gli oggetti frustranti è stata volta in ostilità contro il proprio Io. Questo odio di sé appare nella forma di un senso di colpa, cioè di una discordanza tra l’Io e il Super-Io. La mania dimostra che la tensione fra il Super-Io e l’Io, che in precedenza era stata estrema, si è improvvisamente liberata. L’umore allegro del maniacale va interpretato economicamente come un segno di risparmio di spesa psichica. 

  EDWARD BIBRING (1953)

La depressione può essere definita come l’espressione (indice) emotiva di uno stato in cui l’Io è inerme e impotente a prescindere da ciò che può aver causato il colasso dei meccanismi che stabilivano l’autostima. Certi scopo ed oggetti narcisisticamente importanti, cioè connessi all’autostima, sono fortemente mantenuti, come il desiderio di essere degno ed apprezzato, il desiderio di essere forte, grande, sicuro, il desiderio di essere buono e affettuoso. E’ dalla tensione tra queste aspirazioni narcisistiche e l’acuta consapevolezza che l’Io ha della propria (reale o immaginaria) impotenza ed incapacità di vivere secondo esse, che risulta la depressione.

Si viene ad introdurre il conflitto fra il Sé ideale e l’attuale percezione del Sé del paziente depresso.

Ne risulta che la depressione non è determinata da un conflitto fra l’Io da un lato e l’Es o il Super-Io o l’ambivalenza dall’altro, ma deriva primariamente da una tensione interna all’Io stesso, da un conflitto sistemico interno. Così la depressione può essere definita come conseguente al colasso completo o parziale dell’autostima dell’Io, poiché esso si sente incapace di vivere secondo le aspirazioni del Super-Io (più correttamente dell’Ideale dell’Io), mentre queste sono fortemente conservate.

Molto probabilmente quella che Bibring definisce è la risposta depressiva che poi Sandler teorizza come una reazione depressiva conseguente alla discrepanza che il soggetto percepisce esserci fra il proprio Sé ideale e la percezione del proprio Sé attuale. Tale depressione è molto diversa da quelle che sono messe in moto da identificazioni e proiezioni patologiche.

  RENE’ SPITZ (1958) 

Nel quadro delle teorie sulla depressione un posto a parte va riservato a quella che Spitz ha definito “depressione anaclitica” il cui quadro clinico è composto da sintomi crescenti che vanno dall’apprensione, alla tristezza, al pianto, al respingimento dell’ambiente e al ritiro, al ritardo nello sviluppo, alla lentezza nei movimenti, alla perdita di peso e all’insonnia, sintomi che si accompagnano all’espressione fisiognomica tipica di questi casi, il cui quadro diventa irreversibile raggiunto il punto critico dei tre mesi, il cui fattore etiologicamente significativo è l’assenza della madre del bambino nel primo anno di vita, tra il sesto e l’ottavo mese.

 JOHN BOWLBY (1960)

Bowlby introduce una distinzione fra la depressione come segnale e che descrive un affetto che è parte integrante della vita psichica non meno dell’angoscia, e la depressione patologica definita “malattia depressiva”. Il dolore indica la sequenza di stati soggettivi che segnalano la perdita ed accompagnano il lutto.

Per Bowlby l’attaccamento dell’individuo al suo oggetto d’amore è mediato da una quantità di sistemi di risposta istintuale. Nella prima fase del lutto i sistemi sono tutti centrati sull’oggetto originario, il che comporta dei tentativi per cercare di recuperare l’oggetto perduto. Ne risulta che l’individuo in lutto sperimenta ripetutamente delusione, angoscia di separazione e dolore. Il dolore è un particolare amalgama di angoscia, collera e disperazione in seguito all’esperienza di una perdita irrecuperabile. Differisce dall’angoscia di separazione per il fatto che l’angoscia è sentita quando la perdita è ritenuta riparabile e la speranza resta.

Quando i sentimenti di delusione, angoscia di separazione e dolore cessano, si produce una disorganizzazione della personalità accompagnata da pena e disperazione. Nel lutto avviene una riorganizzazione che è in parte orientata con l’immagine dell’oggetto perduto e in parte con l’investimento che viene operato su nuovi oggetti.

Il lutto patologico deriva dall’incapacità di fare l’esame di realtà, vale a dire ad accettare che l’oggetto perduto non sia più recuperabile. 

Diversamente dalla malattia depressiva la depressione non è altro che l’aspetto soggettivo di questo stato di disorganizzazione. In questa prospettiva è possibile vedere nei processi comportamentali che accompagnano la depressione una funzione adattiva. Per quanto tale disorganizzazione sia dolorosa e comporti il rischio che non si raggiunga mai una riorganizzazione soddisfacente, sembra chiaro che è un passo indispensabile verso un adattamento nuovo, in quanto gli schemi di comportamento che sono cresciuti nell’interazione con l’oggetto o scopo perduto hanno cessato di essere adeguati e se dovessero persistere sono malamente adattabili.

A proposito della necessarietà della depressione come momento indispensabile per l’adattamento Sandler deplora la tendenza di alcuni analisti di considerare la depressione come una manifestazione necessaria, senza fare alcuna distinzione fra la capacità di padroneggiare il dolore in modo adattivo, la risposta depressiva e la melanconia in senso stretto.

EDITH JACOBSON (1960)

I depressi tentano di recuperare la propria perduta capacità di amare e di funzionare mediante un amore magico da parte del loro oggetto d’amore. Sono quattro le fasi caratteristiche del trattamento:

     – l’iniziale ed eccezionale successo del tranfert;

     – il successivo periodo di tranfert negativo con corrispondenti reazioni terapeutiche negative,   

        cioè gli stati via via più gravi di depressione;

      – lo stadio di pericolose difese introiettive;

– la fase finale di soluzione graduale e conflittuale costruttiva.

Vi deve essere un legame continuo, sottile, empatico tra l’analista e i pazienti depressi. Quel che occorre a tali pazienti non è tanto la frequenza o la lunghezza delle sedute, quanto una dose sufficiente di spontaneità e di flessibile adattamento a livello del loro umore; di cauta comprensione e in particolare di un rispetto inamovibile.

   JOSEPH SANDLER (1965 – 1967)

Per iniziare è utile riproporre un concetto che Sandler esprime in “Alcuni problemi concettuali riguardanti i disturbi narcisistici” (1965):

“Dal punto di vista biologico, il principio della omeostasi energetica può essere utile e appropriato. Tuttavia dal momento in cui il bambino diventa un essere psicologico, da quando egli inizia a costruire un mondo rappresentazionale come strumento mediatore dell’adattamento, gran parte del suo funzionamento è regolato da diversi stati affettivi. Le esigenze pulsionali e la loro soddisfazione hanno un’influenza importante sugli stati affettivi, ma non è certamente l’unica. Gli stati affettivi sono prodotti e influenzati da stimoli derivanti da fonti diverse da quelle rappresentate dalle pulsioni, per esempio dall’ambiente esterno; è troppo semplicistico ipotizzare che le vicissitudini dello sviluppo degli affetti siano un semplice riflesso delle vicissitudini delle pulsioni.”

Poi più avanti:

“Man mano che il bambino si sviluppa, la sua organizzazione delle esperienze diviene sempre più complessa e dipende sempre meno dallo stato somatico del bambino stesso.

E’ ovvio che una formulazione quale quella del principio di piacere (o del principio di realtà, che ne deriva) non può da sola rendere giustizia dei processi che producono e regolano questi stati esperenziali (tanto consci quanto inconsci). Dal nostro lavoro clinico sia coi bambini sia con gli adulti per esempio si vede che il bisogno di preservare il benessere e la sicurezza può avere la precedenza sul desiderio di conseguire il piacere sensuale. Il desiderio del piacere sessuale viene, come tutti sappiamo, prontamente sacrificato al fine di preservare sentimenti di sicurezza. …. Si può dire che lo stato di benessere psicologico esista quando si riscontra una sostanziale corrispondenza tra la rappresentazione psichica dello stato attuale del Sé e una delle sue possibili forme ideali…. La mancanza di autostima, i sentimenti di inferiorità e di valorizzazione, la vergogna e il senso di colpa rappresentano tutti dei derivati particolarmente elaborati del fondamentale affetto del dolore.”In “Note sul dolore, la depressione e l’individuazione” del 1965 Sandler sostiene che il dolore psichico rappresenta il sentimento opposto ai sentimenti di sicurezza e di benessere; esso indica la discrepanza che esiste fra la rappresentazione dello stato del Sé attuale, qual è percepita dal soggetto

e la rappresentazione di uno stato ideale, e agisce come lo stimolo più importante per la messa in moto e la regolazione delle risposte adattive dell’individuo.

Sandler esamina il quadro sintomatologico che deriva da uno studio sulla depressione dei bambini, la cui risposta di base è una risposta affettiva a carattere depressivo. Essa è una risposta psicobiologia di base che si sviluppa in seguito ad una persistente condizione di deprivazione affettiva:

   “Questo quadro era caratterizzato da uno stato d’animo variamente descritto dai terapeuti come 

    “tristezza”, “infelicità”, oppure “depressione”. Questo stato d’animo aveva delle componenti sia 

    di tipo psichico, sia di tipo fisico: il bambino sembrava infelice, aveva poco interesse per ciò che 

     lo circondava, appariva chiuso, annoiato, svogliato; aveva un sentimento come di scontentezza 

     per ciò che gli veniva offerto e mostrava poca capacità di provare piacere. Comunicava l’im –

    pressione di sentirsi respinto o non amato, e dimostrava un’evidente tendenza a ritirarsi dagli og –

    getti che lo deludevano; non accettava facilmente aiuto o conforto, e, se pure reagiva  positiva –

     mente, facilmente riemergevano la sua scontentezza e la sua insoddisfazione sottostanti. Mo –

     strava una tendenza a regredire verso tratti di comportamento e atteggiamenti di tipo passivo e 

     orale. Si notavano insonnia e vari altri tipi di disturbi del sonno, attività di autorassicurazione di 

     tipo autoerotico o ripetitivo. In genere il terapeuta riferiva di avere in quel periodo difficoltà a 

     mantenere un contatto prolungato con il bambino. “

Essa sarebbe una reazione ultima contro l’esperienza di impotenza nei confronti di un dolore fisico o psicologico. Tale risposta non va confusa con le forme di malattia depressiva conseguenti a introiezioni e identificazioni patogene.

La reazione depressiva è tipica di una situazione di impotenza, di disperazione, di rassegnazione di fronte al dolore psichico. La risposta sana all’esperienza del dolore è la protesta, la lotta, piuttosto che la fuga. Nella risposta depressiva vi è un sentimento come di incapacità a ripristinare una situazione desiderata, che si accompagna ad un atteggiamento che è essenzialmente di capitolazione e ritirata. Essa rappresenta, ma non necessariamente ne è l’unica, la risposta del bambino al dolore provocato dalla separazione o da qualsiasi altra causa reale o fantasticata. Essa rappresenta una reazione soggettiva al dolore a prescindere dalla perdita in sé e per sé dell’oggetto.

Quando un oggetto è perduto la sua rappresentazione riceve da un lato un sovrainvestimento di desiderio e dall’altra l’immagine interna dell’oggetto non è confermata da una corrispondente percezione derivante da fonti esterne. Si viene così a determinare una dolorosa discrepanza fra la situazione esistente nel mondo rappresentazionale e lo stato desiderato, il cosiddetto stato ideale, vale a dire che si crea una frattura fra lo stato attuale del Sé da una parte, e lo stato ideale di benessere dall’altra. Lo stato di benessere è strettamente legato ai sentimenti di salute e di sicurezza.

Tale stato può essere raggiunto mediante una soddisfacente scarica pulsionale, a meno che il raggiungimento dello stato di benessere non sia ostacolato da un conflitto psichico. La differenza qualitativa tra i sistemi dell’Es e dell’Io consiste nel fatto che mentre le pulsioni sono caratterizzate da stati di tensione e da una richiesta di scarica, il funzionamento dell’Io è molto più connesso col mantenimento di situazioni affettive di benessere (anche a spese dei desideri pulsionali).

Lo stato ideale rappresenta la situazione affettiva di benessere, mentre il Sé ideale denota la particolare rappresentazione del Sé che deriva dal mantenimento dello stato ideale. Il Sé ideale non è formato unicamente da rappresentazioni di affetto, ma anche da ricordi di situazioni precedenti di benessere e da elaborazioni fantastiche che possono essere il frutto di operazioni difensive, che hanno l’effetto di inserire nel Sé ideale componenti di tipo magico e onnipotente.

Il ruolo dell’oggetto è quello di essere veicolo per il raggiungimento dello stato ideale di benessere, non solo quando le relazioni oggettuali sono di tipo anaclitico (la madre che si prende cura del bambino), ma anche quando è stata raggiunta una situazione di costanza d’oggetto. La percezione della presenza dell’oggetto d’amore quando ci si aspetta che sia presente è una sorgente di sentimenti di benessere e di sicurezza, anche quando l’oggetto non è al servizio del soddisfacimento pulsionale. La transizione dalle relazioni anaclitiche a quelle caratterizzate dalla costanza dell’oggetto riflette una serie di mutamenti nell’Io del bambino, piuttosto che nelle sue pulsioni. Nella transizione allo stato di costanza d’oggetto, acquistano sempre più importanza quei bisogni secondari che hanno a che fare con il mantenimento dei sentimenti di sicurezza e di benessere.

Se la presenza dell’oggetto rappresenta la condizione per il mantenimento di uno stato di benessere del Sé, allora la perdita dell’oggetto significa la perdita di uno stato del Sé. A ciascuna rappresentazione di ogni oggetto d’amore corrisponde in modo complementare una rappresentazione del Sé che è in relazione con l’oggetto e che costituisce il legame tra Sé e oggetto. Quando si perde un oggetto d’amore si ha la perdita non soltanto dell’oggetto in sé stesso, ma anche dell’aspetto oggettuale complementare del Sé e dello stato affettivo di benessere che è così intimamente collegato con esse. In una tale situazione di perdita dell’oggetto, l’investimento affettivo di valore sull’oggetto è enormemente aumentato e l’attenzione si focalizza quasi esclusivamente sull’oggetto, perché questo è la chiave per il ripristino del perduto stato del Sé.

L’individuazione è quel processo durante il quale l’Io abbandona gli stati ideali del passato ed elabora nuovi ideali egosintonici e più adatti alla realtà. Tale processo ha uno stretto rapporto con la risposta depressiva. Il dolore di per sé non coincide con la risposta depressiva. Se è possibile difendersi con successo nei confronti della situazione interna o esterna, il dolore diminuisce o scompare. Se il bambino, invece, reagisce all’esperienza di dolore con un aumento della sua scontentezza, e in particolare regredisce ad un atteggiamento di richiesta orale, diventa il tipico

bambino infelice e lamentoso. In questi casi spesso riconosciamo una fonte interna di infelicità, che viene spostata sull’ambiente esterno, di modo che in realtà nulla lo soddisfa e gli piace. Il Sé medesimo può essere oggetto della rabbia o addirittura dell’odio del bambino; è un Sé insod – disfacente e viene investito con una carica aggressiva. Questa infelicità non coincide tuttavia con quel particolare tipo di adattamento al dolore in cui consiste la risposta depressiva: la qualità della risposta del paziente ad uno stato di dolore dipenderà, in larghissima misura, dal grado in cui egli può esprimere e scaricare gli intensi sentimenti di ostilità e di aggressività nei confronti di quella che egli considera la fonte del suo dolore.

La mancata distinzione tra dolore e depressione porta ad istituire legami mistificanti e stereotipati tra il vasto campo dei disturbi del narcisismo e la specifica risposta della depressione. Un individuo può reagire ad una dolorosa discrepanza fra il Sé ideale e il suo Sé attuale con una risposta di risentimento rabbioso, con una sovracompensazione in fantasia, oppure con un comportamento esibizionistico, il che non implica affatto che egli si stia difendendo contro una risposta depressiva. Se egli non potesse, per qualche motivo, usare queste difese contro lo stato doloroso del Sé e reagisse con un sentimento di impotenza e di disperazione, allora diventerebbe depresso.

Uno degli effetti dello sviluppo della reazione depressiva è l’abbassamento del livello di attività pulsionale e una inibizione delle funzioni dell’Io. Anche se può sembrare che tale abbassamento del livello del funzionamento psichico fornisca un momento di respiro e consentire il verificarsi di processi di ripresa, non crediamo che l’esperienza della depressione sia una condizione necessaria per la ripresa stessa. Deploriamo la tendenza di alcuni analisti a considerare la depressione come una manifestazione necessaria, senza fare alcuna distinzione fra la capacità di padroneggiare il dolore in modo adattivo, la risposta depressiva e la melanconia in senso stretto.

Il dolore è costantemente sperimentato dal bambino nel corso del suo sviluppo normale, quando avverte una discrepanza fra lo stato ideale e lo stato attuale del suo Sé. Man mano che egli progredisce nella corretta valutazione della realtà, si rende sempre più necessario l’abbandono di stati del Sé precedentemente vissuti come soddisfacenti. Nei primi anni di vita del bambino questi stati di soddisfazione hanno caratteristiche magiche e onnipotenti. Ci sono condizioni di frustrazione e di sofferenza che comportano la possibilità di tornare indietro verso gli ideali infantili precedenti, raggiungibili nei fatti o in fantasia. Questa è probabilmente l’essenza dei processi di regressione temporanea, che si verificano nel corso dello sviluppo normale. Il superamento della regressione e il successivo movimento in avanti è legato ad un certo grado di sofferenza e ne consegue di norma un processo in qualche modo analogo al lutto (la rinuncia a stati infantili del Sé che non deve essere equiparato alla depressione). Tale è il processo di individuazione che indica il graduale sviluppo da parte del bambino di ideali sempre più adattati alla realtà, che si accompagna

alla rinuncia di scopi infantili e della dipendenza da oggetti esterni per l’ottenimento del benessere. Tale processo non comporta unicamente la rinuncia a stati ideali del passato che sono ormai inappropriati, ma anche il graduale raggiungimento di un piacere nel padroneggiare le nuove funzioni che divengono possibili (si pensi allo stato di eccitamento che è proprio del bambino che impara a camminare). Il soggetto nel suo sviluppo è costantemente confrontato con situazioni che richiedono nuovi processi di individuazione. In ciascuno di questi momenti, per conseguire l’adattamento, è necessario abbandonare modalità precedenti di soddisfacimento pulsionale, ma anche stati del Sé che precedentemente erano rassicuranti e soddisfacenti (questo processo si accompagna a sentimenti di dolore).

Nel 1967 nell’articolo dal titolo “Sul concetto di dolore, con particolare riferimento alla depressione e al dolore psicogeno” Joseph Sandler amplia questi concetti e considera il dolore come uno stato affettivo e la risposta affettiva depressiva come una risposta psicobiologia di base altrettanto fondamentale quanto l’angoscia. Essa ha le sue radici in uno stato psicofisiologico primario, considerato come una risposta all’esperienza di impotenza di fronte ad una situazione interiore intollerabile. Sandler considera la reazione depressiva come una “risorsa” di tipo particolare, un tentativo di adattamento all’impotenza di fronte ad uno stato intollerabile di cose (una delle risposte al dolore). La reazione depressiva non è una risposta diretta ad un insieme di circostanze precipitanti, ma è piuttosto una risposta particolare al dolore generato da tali circostanze. Ci sono altre possibili risposte al dolore, come un progressivo adattamento (per esempio l’accettazione della perdita e lo spostamento dell’investimento su nuovi oggetti quando la fonte della tensione è dovuta alla perdita, oppure il cambiamento delle proprie mete se la tensione deriva dall’insuccesso nel raggiungimento di una meta ambita), o anche reazioni patogene, come certe forme di malattia psicosomatica.

Ogni dolore è psichico e consiste in uno stato affettivo spiacevole che si associa ad un ampio spettro di contenuti ideativi. 

Nell’esperienza del dolore fisico in cui sentimenti spiacevoli sono collegati all’idea di un danno fisico, l’individuo prova il sentimento di dolore in seguito ad uno stato di discrepanza ideativa. Si tratta della discrepanza tra l’immagine che la persona ha del proprio corpo danneggiato da una parte, e la rappresentazione di quello che l’individuo considera (consciamente o inconsciamente) come un corpo intatto, ben funzionante, desiderato dall’altra.

Il concetto di rappresentazione del Sé ha una connotazione più ampia della rappresentazione dello schema corporeo, poiché include anche le rappresentazioni della persona in quanto essere psicolo – gico e sociale, oltre che alle rappresentazioni del suo essere fisico. Il dolore è la concomitante affettiva di ogni discrepanza rappresentazionale.

Il presupposto che la reazione depressiva sia un tipo di risposta allo stato di dolore, che esprime impotenza, capitolazione e rassegnazione di fronte al dolore, implica che la discrepanza dolorosa fra le rappresentazioni del Sé attuale e ideale, che tali pazienti rinunciano ad affrontare, ha le sue radici in qualche sorta di conflitto psicologico, che implica abitualmente sia intensi desideri aggressivi sia reazioni di estrema vergogna e colpa. Sono possibili altre risposte che rappresentano tentativi di dominare il dolore, per cercare di ridurre la discrepanza fra le rappresentazioni del Sé. Possono essere elaborati ideali più appropriati alla realtà, oppure mediante il ricorso a spostamenti o ad altre operazioni difensive, nel tentativo di alterare, in modo non realistico, sia la rappresentazione attuale del Sé, sia quella ideale, allo scopo di ridurre la discrepanza, fonte di dolore. Tali manovre determinano la natura della successiva patologia. Spostamenti all’interno della rappresentazione del Sé tra aspetti somatici, psicologici e sociali possono avere una parte importante nel condurre alla delinquenza, piuttosto che alle perversioni, alle tossicomanie o ai disturbi psicosomatici e simili.

Dallo stato affettivo centrale di dolore si può sviluppare il dolore fisico di origine psicogena, il quale è un mezzo per affrontare uno stato di dolore psichico collegato ad un conflitto psicologico. Da certi aspetti discrepanti della rappresentazione del Sé, dovuti ad uno stato di conflitto psicologico, si effettua uno spostamento verso la rappresentazione di un danno a carico del corpo o dei tessuti. Per questi individui sembra più facile tollerare una discrepanza a carico della rappresentazione corporea e centrata sull’idea di un danno fisico; in particolare per quei pazienti per i quali la vergogna e l’umiliazione sono particolarmente intollerabili, una forma di dolore fisico può essere infinitamente preferibile; l’autostima della persona può essere completamente ristabilita dal pensiero che la capacità di funzionare bene in tutti i campi è compromessa soltanto dai propri disturbi fisici; in modo analogo possono essere diminuiti considerevolmente il senso di colpa e la responsabilità per un insuccesso e così via. Tali pazienti possono mostrare anche segni di depressione. Ciò è l’indice che in queste persone non è stata raggiunta alcuna soluzione difensiva stabile e sono falliti i ripetuti tentativi di ridurre lo stato di dolore psichico Quando ciò accade l’individuo può reagire con una risposta depressiva. In questo senso non si può sostenere che il dolore psicogeno è stata una difesa contro la depressione, ma piuttosto che è stata una difesa contro lo stato centrale di dolore psichico e che, se la difesa fallisce, è possibile che la persona produca una risposta depressiva.

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