IL BISOGNO DEL BAMBINO DI SENTIRSI RISPECCHIATO

Il bambino che soddisfa i desideri consci o inconsci dei genitori è un “bravo bambino”, ma quando egli si rifiuti di comportarsi sempre così ed esprima desideri autonomi, contrastanti con quelli dei genitori, viene definito egoista e insensibile. E’ raro che i genitori si rendano conto di servirsi del figlio per soddisfare i propri (egoistici) desideri. Un bambino educato secondo tali principi, se non vuole perdere l’amore dei genitori imparerà molto presto a rinunciare e soddisferà i bisogni dei genitori con esemplare senso del dovere, non potendo consentirsi di essere “egoista”, “avido”, e “asociale”, per il tempo a lui necessario, senza temere di perdere l’amore dei genitori. Gli adulti educati sulla base di questi principi a loro volta trasmetteranno ai propri figli questo “altruismo”, mancando del rispetto necessario per il bambino, perchè per loro non c’è stato rispetto.

La parola “egoismo” perde la sua univocità di significato. Non è concepibile che si possa amare veramente un’altro (e quindi non semplicemente servirsene) se prima non si è in grado di amare sé stessi per quel che si è. In un simile contesto il bambino non riesce a riconoscere sé stesso, ad avere rispetto per le proprie esigenze, imparando ad amarsi. Come si può amare qualcosa che non si conosce e che mai è stato amato? Egli propone agli altri ciò che Winnicott ha definito un “falso sè” e la sua parte più autentica, il “verò sè” rimane celato anche a lui stesso. Quando questi adulti affrontano una psicoterapia la via passa inevitabilmente verso la riscoperta emotiva e l’accettazione della storia unica e irripetibile della loro infanzia nella sua verità.

Tali bambini non arrivano a rendersi conto della solitudine e dell’abbandono a cui sono stati esposti, non dell’abbandono esteriore, alla separazione materiale dai genitori o al fatto di essersi sentiti dei bambini trascurati. Anzi spesso hanno avuto dei genitori tutt’altro che indifferenti o rozzi, dai quali sono stati anche incoraggiati ed in genere descrivono un’infanzia felice e protetta. Si tratta di persone ricche di possibilità e addirittura di talenti che non hanno mancato di sviluppare, spesso lodati per le loro doti naturali e per le pretazioni che ne derivavano, orgoglio dei loro genitori che, secondo l’opinione comune dovrebbero avere una salda coscienza del proprio valore. In realtà è tutto il contrario. A nulla serve il loro eseguire bene se non addirittira in modo eccellente ogni compito, l’essere ammirati e invidiati, il mietere successi quando si cimentano. Dietro tutto ciò è in agguato il senso di vuoto, di autoalienazione e di assurdità della propria esistenza. Quando entrano in terapia descrivono i loro primi ricordi senza alcuna simpatia per il bambino che sono stati e il rapporto che intrattengono con il mondo affettivo della loro infanzia è caratterizzato da scarso rispetto, coazione al controllo, manipolazione e pressione per le altre prestazioni, accompagnate da disprezzo ed ironia riguardo a sé stessi, che può arrivare fino al sarcasmo. In questo modo l’illusione della buona infanzia è servita.

In sintesi

1) E’ un bisogno irrinunciabile quello del bambino essere considerato e sta alla base della formazione di un sano senso di Sé.

2) Il riconoscimento delle sue sensazioni e dei suoi sentimenti rappresenta il fondamento della formazione del suo senso di identità, che lo aiuta a compiere i passi necessari verso l’individuazione.

L’osservazione clinica ci porta a vedere come il caregiver è spesso una persona insicura sul piano emotivo ed utilizza il figlio per i propri bisogni di sicurezza, laddove il bambino tende ad adeguarsi e ad assumere la funzione che (inconsciamente) gli viene richiesta. La conseguenza inevitalile è l’impossibilità per questi bambini di vivere in maniera autentica determinati sentimenti come la gelosia, l’invidia, l’ira o il lasciarsi andare senza correre il rischio di ferire il genitore e renderlo insicuro. Il bambino può vivere I propri sentimenti solo se c’è una persona che questi sentimenti li accetta e li comprende, altrimenti preferisce non viverli affatto e se ne distacca, arroccandosi dietro un sé che deve negare questi stessi sentimenti. La madre in questo caso manca della sua funzione di rispecchiamento (rêverie) e non consente al bambino di imparare a conoscere i propri sentimenti e a differenziarli. Egli metterà in atto tutta una gamma di difese, come la negazione o la trasformazione nel contrario, per non riconoscere i propri sentimenti. L’adattamento a questi contesti conduce il bambino allo sviluppo di una personalità “come se”, ovvero al “falso Sé” descritto da D. Winnicott: l’individuo non si limita a mostrare l’atteggiamento che gli viene richiesto, ma si fonde con esso, che difficilmente si potrebbe sospettare la fatica che egli fa per nascondere il suo “vero sé”, in quanto teme che la sua espressione si leghi al rifiuto e alla condanna da parte del suo ambiente. Questi aspetti della crescita del bambino emergono quando essi descrivono un senso di vuoto e di assurdo, la mancanza di vitalità, spontaneità e di impoverimento affettivo.

Non si può sostenere che questi bambini non siano stati amati, ma non nel modo in cui essi avrebbero voluto essere amati, e comunque sempre alla condizione che essi mantengano il loro falso sé. Tale condizione non influisce sullo sviluppo delle loro facoltà intellettuali, ma piuttosto al dispiegarsi di una vita affettiva autentica. Così viene a mancare un’integrazione sufficiente e,in seguito alla loro scissione che avviene tra le due aree psichiche, ognuna va per conto proprio, pur convivendo nella stessa persona.

Consideriamo che il piccolo nasca in una situazione indifferenziata e che nell’intenso dialogo che si apre con il proprio caregiver il bambino impara a riconoscere I segnali affettivi ed emotivi che di volta in volta egli prova e che esso non è ancora in grado di riconoscere. La madre districa per il bambino questa situazione e risuonando con questi segnali mette il bambino in grado di decodificarglieli e fargli capire il loro significato, collegandoli a quello che succede e che egli è in grado di osservare. Tale stato di cose è definita come la funzione di rêverie della madre, che se non avviene espone il bambino ad una situazione di sconcerto in quanto egli non riesce a dare un significato a quello che sta provando. Se poi la madre invece che riflettere tali stati del bambino, risuona con i propri bisogni, comunica al bambino non ciò che egli sta provando bensì ciò che si aspetta che lui riconosca e che appartiene alla madre. In questo modo il bambino struttura un Sè che riflette I bisogni della madre e non riesce a dare valore a ciò che prova, sviluppando quello che si definisce un “falso sè”, mentre il suo “vero sè” rimane incistato e subisce una coartazione che conduce il bambino a considerare privi di ogni valore i suoi sentimenti più autentici.

Quando queste persone entrano in terapia il primo lavoro da fare riguarda il modo di trattare i propri sentimenti e rimangono sorpresi quando trovano qualcuno che prende sul serio ciò che fino a quel momento erano abituati a soffocare. Si può osservare una tendenza a fare del sarcasmo sui propri bisogni, ma a poco a poco la persona si accorge che i suoi stati d’animo si sono adattati agli altri e alle richieste del suo ambiente, rendendosi conto della rinuncia che c’è stata a percepire autenticamente i propri sentimenti. Egli ora riesce a sentire una gamma più vasta di sentimenti, che in ogni caso introducono un conflitto doloroso quando si accorge di non essere più le persona ragionevole e capace di controllo su cui basava la sua autostima. Ora egli può vivere i sentimenti che aveva negato a sè, come l’impotenza, la rabbia e i sentimenti di abbandono che aveva congelato. Emerge il suo “vero sé”, quello che egli aveva accuratamente nascosto e viene fuori accompagnato da sentimenti depressivi per tutto ciò che non ha potuto vivere e che ora riesce a sentire. La verità viene trovata nella sofferenza. Emergeranno sentimenti di terrore, disperazione, ribellione, diffidenza e solo in seguito compassione e riconciliazione. Solo la dolorosa esperienza e l’accettazione della nostra verità ci rende relativamente liberi della ostinata speranza di riuscire a trovare la madre comprensiva ed empatica che non c’è stata. Questo avviene quando la madre (per madre intendiamo la figura che si prende cura dei bisogni primari del bambino) investe il piccolo non come centro delle sue attività, bensì come parte di sé stessa e quando essa si sente delusa ed offesa nelle situazioni in cui il bambino non si comporta secondo le sue aspettative. In questi casi diremmo che la madre investe narcisisticamente il figlio, secondo i propri bisogni e senza risuonare e riflettere quelli del bambino. Nel volto della madre il bambino non troverà, in questo caso, sè stesso, ma le esigenze della madre stessa.

Ogni bambino ha il legittimo bisogno narcisistico di essere osservato, capito, preso sul serio e rispettato dalla propria madre, poterne disporre nelle prime settimane e nei primi mesi di vita, usarla, rispecchiarsi in lei, gli è necessario. Questa attitudine si accompagnerà al graduale sorgere di un sano sentimento di sè e alla sicurezza che i sentimenti che prova appartengono a lui; egli potrà vivere i propri sentimenti, essere triste, disperato, aver bisogno d’aiuto, spaventarsi quando si sente minacciato, essere “cattivo” quando non vede soddisfatti I propri desideri, senza per queste correre il rischio di perdere l’attaccamento della madre, che rimarrà una figura salda dentro di lui e gli consentirà di sviluppare una sana autonomia, integrando dentro di sè le diverse rappresentazioni di sè e delle figure di accudimento.

Al bambino che invece è fatto oggetto di un investimento narcisistico da parte della madre è possibile sviluppare indisturbato le sue facoltà intellettuali, non però il suo mondo affettivo. Due sono le difese psichiche che vengono attivate in contesti di questo genere e una è il rovescio dell’altra. Da un lato si sviluppano delle fantasie grandiose del Sé, dall’altro la depressione come espressione del dolore per la perdita del Sé. Nella grandiosità c’è il bisogno di sentirsi ammirato da chiunque per i propri talenti, la propria intelligenza e propri successi, se però qualcosa va storto l’individuo cade in preda ad una forte depressione. L’autostima di queste persone non si fonda sui propri sentimenti, ma sul possesso di certe qualità per cui l’insuccesso equivale ad una sconfitta bruciante e alla perdita di valore del proprio Sé. Essi realizzano una tormentosa dipendenza da questo meccanismo di conferma per evitare di cadere nella depressione. Cercano un’ammirazione che non è mai sufficiente e che rappresenta l’appagamento sostitutivo del bisogno primario di ricevere attenzione e comprensione per sè stessi. Quando tutto questo non funziona c’è in agguato la caduta depressiva. I fattori che predispongono a questo processo sono:

  1. il falso sè ha portato alla perdita del sé autenticamente possibile;
  2. l’autostima, invece che essere radicata nella sicurezza dei propri sentimenti, si basa sulla possibilità di realizzare il falso sè;
  3. un’ideale del Sè molto alto;
  4. la negazione e il diprezzo per i propri limiti;
  5. la prevalenza nel rapporto con gli altri verso figure tendenti a confermare la propria grandiosità;
  6. la paura di perdere il legame con le figure di atttaccamento che li spinge ad adattarsi alle richieste degli altri;
  7. I sentimenti di invidia e la rabbia per ciò che hanno gli altri;
  8. l’estrema vulnerabilità;
  9. la predisposizione ai sentimenti di vergogna e di colpa;

La depressione rappresenta il segnale della perdita del Sé dovuta alla negazione delle proprie sensazioni e delle prorie reazioni emotive. Tale negazione è iniziata nella prima infanzia al servizio dell’adattamento per la paura di non corrispondere ai bisogni del genitore, e prosegue nella situazione presente dell’individuo con le nuove figure con cui egli ha dei rapporti significativi, che rappresentano il prolungamento con la figura primaria. La scontentezza e la collera espressa risvegliavano dubbi della madre su sè stessa in quanto madre, la vista del dolore le procurava angoscia, da cui il bambino ha imparato molto presto a non sentire per non mettere in gioco l’amore della madre. Se il contesto è poi cambiato, lui rimane sempre la stessa persona e la paura di scontentare le altre persone anche. Non ha ricevuto un’educazione attenta a cogliere le proprie esigenze, che a lui continuano a  rimanergli estranee e fonte di turbamento.

Durante un pranzo insieme ai suoi genitori e alla sua famiglia, la madre aveva tessuto le lodi dellla figlia sostenendo che è sempre stata la figlia perfetta. Ed aveva ragione, perchè molto presto nella sua vita la mia paziente aveva rinunciato a dare ascolto alle proprie esigenze facendosi carico di quelle della mamma, e poi di quelle della sorella nata successivamente a lei, proseguendo in un modo a lei inconsapevole anche nella scelta del coniuge e indirizzandosi verso un lavoro in cui attivamente di prendeva cura di persone inabili ad occuparsi di sè stesse. Aveva trasformato la mancanza di empatia sofferta nel suo contesto familiare in un’occasione in cui prendersi cura degli altri e dare agli altri quello che lei non aveva ricevuto per sè, sostituendo l’appagamento dei suoi bisogni con quello delle persone di cui si prendeva cura. Il senso di vuoto e di estraneità l’aveva portata ad affrontare la psicoterapia dove aveva potuto far esperienza con i bisogni infantili a cui aveva dovuto rinunciare e che anche dopo molti anni le laciavano un senso di inutilità per tutto ciò che faceva.

L’individuo sviluppa un Falso Sé, cioè una personalità in cui appare come ci aspetta che dovrebbe essere. Il suo Vero Sé non può svilupparsi, perché non può essere vissuto. Non potendo abbandonarsi a sentimenti propri e non avendone fatto esperienza, l’individuo non può conoscere i propri bisogni ed è alienato da se stesso. La madre guarda il bambino, il bambino guarda la madre e vi si ritrova… a patto che la madre guardi davvero il suo bambino e non osservi invece in lui le proprie attese e le proprie paure, facendo progetti propri per il figlio e proiettandoli su di lui. In questo caso, nel volto della madre, il bambino non troverà sé stesso, ma le esigenze della madre e continuerà invano, per tutta la vita, a cercare uno specchio che possa sostituirla. Dunque non può separarsi dai genitori e anche da adulto dipenderà perennemente dalla conferma delle persone che rappresentano i genitori. Se invece il bambino cresce con una madre comprensiva e capace di rispecchiarlo, potrà sviluppare gradatamente una sana autostima.
In questa drammatica rappresentazione dell’infanzia , al bambino una volta adulto si apriranno due strade:

Quando la madre non è in grado di soddisfare i bisogni del figlio, perché presenta lei stessa delle carenze affettive, cercherà di soddisfare i propri bisogni personali servendosi del bambino e in questa relazione di sfruttamento, manca lo spazio in cui il bambino possa vivere i propri bisogni e sensazioni. Così, in modo adattivo, il bambino sviluppa quegli atteggiamenti di cui la madre ha bisogno e che gli salvano la vita perché gli assicurano l’amore genitoriale, ma alla lunga gli impediranno di essere sé stesso. Così i bisogni naturali tipici di quell’età non saranno integrati nella personalità, ma verranno scissi o rimossi. Per ottenere la tanto agognata ammirazione, il bambino cerca di apparire perfetto agli occhi dei genitori, concentrandosi sul suo aspetto esteriore, sulle apparenze, inibendo anche i propri sentimenti più spontanei, ma questo porterà il suo sé a ripiegarsi su se stesso, a fermarsi in una posizione narcisistica.

La seconda strada riguarda la posizione depressiva e si sviluppa dopo che al bambino è stato impedito di vivere liberamente le primissime sensazioni che risultano inaccettabili ai “grandi”, come rabbia, insoddisfazione, collera e addirittura la fame. Questo perché vi sono madri particolarmente ansiose per i malesseri fisici dei propri figli tanto che questi ultimi imparano presto a “non avere sentimenti”, a non piangere, a non avere sentimenti o bisogni, per far “contenta” la madre. Inoltre, la depressione può anche insorgere dalla consapevolezza di non essere riuscito a soddisfare le eccessive attese dei genitori. Se da adulto l’individuo riesce a comprendere queste dinamiche, la depressione regredisce, poiché la sua funzione di difesa non è più necessaria.

Arriva l’adolescenza. Cosa fare con irritabilità, scontrosità, risposte a monosillabi?

La domanda che riportiamo è sicuramente quella che più sintetizza la perplessità dei genitori degli adolescenti. La situazione descritta, frequentissima, non ci meraviglia, riguarda infatti i cambiamenti di quasi tutti i ragazzi che passano dall’infanzia all’adolescenza.
Spesso i genitori danno per scontato che questa fase di transizione riguardi solo i figli e non considerano, invece, che il guado infanzia-adolescenza coinvolge e riguarda l’intera famiglia. Non sono solo i ragazzi a doversi misurare con nuovi momenti, comportamenti ed emozioni, anche per i genitori l’adolescenza è un grande cambiamento che richiede un nuovo atteggiamento emotivo e comportamentale.

Si deve quindi mettere in conto che tutto il sistema famiglia, prima di raggiungere un nuovo equilibrio, passi attraverso vari livelli di turbolenza.

Cosa prova l’adolescente durante questa fase?
“Voi non mi capite!!”

Il giovane passa dalla ricerca di protezione e sicurezza, tipica dell’età infantile, al desiderio di autonomia e alla ricerca di una propria identità. Si trova in una fase di egocentrismo caratterizzata da pensieri, regole e teorie che tenta di “imporre”, a sé e agli altri, allo scopo di differenziarsi come individuo dotato di autonomia mentale.
L’adolescente inizia a distanziarsi dalla famiglia, sente con impellenza il bisogno di dimostrare di essere all’altezza delle situazioni, di essere accettato dal gruppo dei pari, di avere un suo mondo privato, di costruire legami affettivi alternativi, di integrarsi con i cambiamenti del suo corpo.

Tali bisogni però si scontrano con una realtà ben diversa e molto critica, densa di eventi che irrompono per la prima volta nella vita di un adolescente, mettendo a dura prova la capacità di sostenere le situazioni che gli vengono poste o in cui lui stesso si infila.
Mostrarsi intolleranti alle regole familiari, mettere in atto condotte trasgressive, reagire con rabbia, porsi in maniera sfidante e provocatoria verso i genitori, limitare le informazioni sulle proprie attività, stabilire dei confini anche fisici (per esempio chiudersi nella propria stanza), sono comportamenti molto comuni che soddisfano la naturale esigenza dell’adolescente di rinforzare la sensazione di “potercela fare”.

Se chiediamo ad un adolescente quali aggettivi descrivano meglio il proprio stato d’animo vengono riferiti: incompreso, costretto, ipercontrollato, assillato, preoccupato, inadeguato, non accettato, non rispettato, giudicato. A seconda delle caratteristiche personali, questi stati d’animo danno luogo a comportamenti di chiusura o strafottenza, sottomissione o arroganza, confusione o assertività, ecc.

Cosa accade ai genitori?

“Sei tu che sei cambiato, noi siamo sempre gli stessi!”

Se pensiamo allo stato d’animo dei genitori la situazione non è molto diversa. Abituati fino a quel momento ad accudire il proprio “bambino”, si trovano di fronte un figlio che non chiede più sicurezza e protezione ma vuole conquistare autonomia.
Questo passaggio, che per giunta è spesso non graduale e repentino, determina sconcerto e stupore nei genitori che, abituati a relazionarsi con le modalità genitore-bambino, si trovano a rispondere a nuove esigenze e a gestire comportamenti spesso incomprensibili. Nel loro animo si affacciano sensazioni irrazionali come senso di abbandono e di mancanza che da un lato contribuisce a percepirsi “traditi”, dall’altro a nutrire il timore di aver fallito nel ruolo di genitore.

Tale condizione genera spesso quel diffuso atteggiamento istintivo di difesa che porta i genitori a ritenersi dalla “parte giusta” e ad attribuire all’adolescente la responsabilità di quanto sta accadendo

nella famiglia.

In relazione ai propri stati d’animo i genitori, in modo non molto dissimile dai propri figli, si dichiarano: inadeguati, impotenti, preoccupati, spaventati, rifiutati, delusi, non rispettati, abbandonati, traditi, sfidati, giudicati. Anche in questo caso questi stati d’animo si manifestano con comportamenti autoritari o remissivi, da amico o da persona contrastante/disconfermante.

E la coppia?

Non raramente, i genitori si trovano ad affrontare un momento difficile anche nella loro relazione e non solo per le possibili divergenze sulle modalità educative. Il distacco dei figli dalla famiglia fa riemergere l’esistenza di una dimensione di coppia che le priorità familiari avevano quasi sopito ed in cui, a volte, dopo una “parentesi” di molti anni, i genitori devono quasi imparare di nuovo a muoversi.

In questo caso è facile che il ragazzo diventi il “capro espiatorio” di una condizione che invece non lo riguarda.

Cosa si può fare?

“Sono due le cose che i bambini dovrebbero ricevere dai loro genitori: radici e ali.” Attribuito a W. Goethe

Il passaggio dall’infanzia alla vita adulta è un momento complesso per chiunque e i genitori si trovano ad accompagnare i propri figli in un’impresa evolutiva di non facile gestione assolvendo al compito di essere un solido punto di riferimento.

Per superare la frequente tendenza a stabilire chi ha torto e chi ha ragione, chi è nel giusto e chi sbaglia, atteggiamenti che quasi sempre conducono a contrasti e a infruttuose contrapposizioni, è innanzitutto importante tentare di cambiare prospettiva, provando a guardare la realtà “mettendosi nei panni” del figlio.

Questo può essere più facile se si prova a recuperare il ricordo di come si è vissuta la propria adolescenza.

Quante volte ci è capitato di trasgredire le regole imposte dalla famiglia (uscire di nascosto, frequentare persone poco conosciute, prendersi una sbornia…) o di avere avuto momenti di rabbia per la sensazione di non essere capiti o di aver subito un’ingiustizia?
Questo fondamentale passo permette di riportare alla memoria un momento che l’evoluzione naturale della vita ha fatto quasi dimenticare: l’adolescenza. Una fase difficile e irta di ostacoli.

In secondo luogo, come genitori, è importante trovare un nuovo posto in questo diverso scenario. Il rapporto non è più con un bambino ma con un giovane che sta diventando un adulto. Contrapporsi per partito preso, demonizzare e punire un singolo comportamento possono essere strategie utili ad alleviare l’ansia e le frustrazione momentanee ma non aiutano a risolvere il problema a lungo termine. Per i genitori si dimostrano ben più utili strumenti come: l’osservazione attenta e consapevole e l’ascolto attivo.

L’osservazione attenta permette di valutare se i comportamenti dei propri figli sono solo una provocazione transitoria, breve, funzionale all’età, oppure se rappresentano un tentativo di mettere una “barriera invalicabile” tra sé e la famiglia (camera da letto sempre chiusa, non mangiare a tavola con il resto della famiglia, irritabilità estrema, assenza totale di comunicazione ecc.). Uno strumento che aiuta a distinguere i comportamenti occasionali di un adolescente che fa le sue prime esperienze da adulto da modi di fare “alterati”, già strutturati.

Tramite l’ascolto attivo, che consiste nel sospendere il proprio giudizio concentrandosi esclusivamente sui racconti, i giovani si sentono incoraggiati ad aprirsi perché sostenuti dalla fiducia che deriva dalla sensazione di essere ascoltati e non giudicati. Il genitore nell’osservare ed ascoltare dovrà affrontare e gestire il difficile compito, comune a tutti, di contenere le emozioni, per esempio la rabbia, che sta provando verso il ragazzo (“è più forte di me, quando parlo con mio figlio lo strozzerei…”, “mi fa andare fuori dai gangheri, è proprio stupido..”).

Come abbiamo visto in precedenza gli stati d’animo dei ragazzi e dei genitori non sono dissimili, e questa comunanza di emozioni può facilitare la comunicazione necessaria al raggiungimento di un nuovo equilibrio.

Non scoraggiarsi se tutto sembra difficile

Quando ci si sente intrappolati in un labirinto e non si vede una via d’uscita, un supporto psicologico per i genitori può essere di grande aiuto per il recupero di risorse inaspettate, ma esistenti e mai provate sul campo, e per il superamento della diffusa, ma infondata, sensazione di aver fallito nel ruolo di genitore.

Chiedere un aiuto qualificato per sé stessi non deve essere interpretato come una sconfitta ma come risorsa. Si tratta infatti di un importante passo verso il cambiamento per aiutarsi ed aiutare chi si trova in difficoltà in favore di una migliore qualità di vita.

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