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LA RELAZIONE DI SETTING

Quando uno studioso non capisce bene qualcosa, o ciò che aveva capito diventa dentro di sé dissonante al punto che la teoria che nel corso di lunghi anni di studio ha appreso e applicato non corrisponde più a quello che lui sente, per cui nella sua pratica clinica trascura e indirettamente mette in discussione le fondamentali nozioni che per lui costituivano la pietra miliare su cui basava il suo stesso modo di comportarsi, in quel momento sente la necessità di rivedere quelli stessi concetti che per tutto quel tempo ha semplicemente applicato, senza che si sia posto la questione se abbiano in sé coerenza o se invece includano degli aspetti di non corrispondenza al proprio modo di concepire quel vasto mondo di teorie che fino a quel momento ha condiviso. Indubbiamente l’esperienza ed una maggior sicurezza nel trattare la materia si accompagna con la necessità di ricalibrare quegli stessi concetti adattandoli alle proprie caratteristiche particolari, al proprio stile e forse agli scotomi che ci sono propri, recuperando dentro di sé la vividezza della propria teoria implicita, non necessariamente in contrasto con quella ufficiale, ma con degli aspetti che la distinguono e che come ha affermato J. Sandler (1983) convive in maniera feconda con le teorizzazioni prevalenti.

“Infatti, poiché la psicoanalisi è formata da formulazioni a diversi livelli di astrazione e da teorie parziali che non si integrano bene l’una con l’altra, l’esistenza di concetti flessibili e dipendenti dal contesto rende possibile l’amalgama di una complessa struttura di teorie psicoanalitiche. Parti di questa struttura sono rigorosamente spiegate, ma possono essere collegate a teorie parziali simili solo se non sono strettamente legate fra loro, cioè se i concetti che formano le ‘giunture’ sono flessibili. Prima di tutto il valore di una teoria dai collegamenti flessibili come questa e che consente l’introduzione di sviluppi nella teoria psicoanalitica, senza che essi debbano necessariamente causare palesi scissioni nella struttura teorica globale della psicoanalisi. I concetti elastici e flessibili raccolgono l’eredità delle trasformazioni teoriche ‘assorbendole’, mentre nuove teorie o teorie parziali più organizzate si sviluppano.”

Nello stesso articolo, più avanti, Sandler sostiene:

 “Lo psicoanalista alle prime armi utilizzerà ciò che ha imparato dal suo analista, dai suoi insegnanti e dalle sue letture. Egli si è formato mediante le proposizioni teoriche e cliniche che gli sono state fornite da queste fonti e le sue teorie saranno per la maggior parte quelle ufficiali o pubbliche. Egli sottovaluterà le discrepanze e le incongruenze delle teorie ufficiali e imparerà a passare da una parte all’altra della sua teoria senza rendersi conto di oltrepassare un certo numero di punti concettualmente deboli della sua teoria. Con l’accrescersi della sua esperienza clinica, diventando più competente, costruirà preconsciamente un’intera serie di segmenti teorici direttamente collegati alla sua attività clinica, che sono il risultato del suo pensiero inconscio, che rappresentano degli schemi o teorie parziali che vengono utilizzate quando se ne presenta la necessità. Il fatto che queste teorie possano contraddirsi l’una con l’altra non è un problema, fintanto che rimangono inconsce. Esse non sono consapevoli a meno che non siano coerenti con la teoria ufficiale. Tali teorie parziali possono essere più duttili e appropriate di quelle pubbliche ed è probabile che molte aggiunte di valore alle teorie psicoanalitiche sono state possibili grazie al fatto che queste teorie parziali preconsce siano state espresse in maniera plausibile e sono state accettate.”

Tutto questo mi sta accadendo con il concetto di “setting” di cui riconosco il valore che ha nella situazione analitica e l’importanza che riveste nel creare un ambiente costante e certo col fine di mettere il paziente in una condizione che lo possa far sentire protetto e dargli sicurezza. Tuttavia, nell’uso quotidiano, mi capita di provare un certo disagio quando sono portato a considerarlo una semplice enumerazione di prescrizioni che devono essere fornite al paziente, con l’intento di definire l’ambito in cui si svolge il lavoro analitico. La tentazione che provo è quella di limitare l’uso del setting a poche disposizioni e neppure così vincolanti, mostrando una flessibilità che, alla luce della mia formazione ortodossa, può essere considerata quantomeno stonata. Da qui la necessità che sento di ridefinire il concetto, l’ambito e la forma in cui utilizzarlo.

Citando Robert Langs (1977) la cornice analitica è un contenitore all’interno del quale avviene il trattamento:

“…esso è una istituzione che pone i confini della relazione analitica, crea le regole dell’interazione, definisce la natura dei fatti reali e delle fantasie, offre un efficace sostegno e senso di sicurezza a chi vi prende parte, definisce le qualità terapeutiche del campo, contribuisce alla natura delle rete comunicativa entro i suoi confini e crea anche ansie particolari a chi vi prende parte.”

Per setting generalmente intendiamo quell’insieme di regole ed accordi che si stabiliscono agli inizi della terapia psicoanalitica fra l’analista ed il suo paziente con lo scopo di definire in maniera univoca il campo d’azione della relazione di terapia. Tali accordi sono in genere definiti come le condizioni “formali” del trattamento con la funzione di salvaguardare il paziente dalla messa in atto dei propri impulsi e desideri, al fine di favorire unicamente la loro espressione psichica ed emozionale. Tale stato di sospensione dall’azione, per effetto di questa stessa condizione, si accorda con il graduale sviluppo della relazione traslativa sulla figura del terapeuta e quindi consente e dà avvio al “processo” stesso che sta alla base del lavoro terapeutico. Il setting definisce l’uso del lettino, l’orario delle sedute, il loro costo, le modalità di pagamento, anche delle sedute mancate e i periodi di sospensione della terapia, ma soprattutto la regola principe della terapia psicoanalitica che riconosce al paziente la possibilità di esprimere tutto ciò che gli viene in mente senza alcuna riserva, in un clima di comprensione e di accettazione di tutti i contenuti che possono emergere in seduta, anche quando essi possono apparire banali o altrimenti stupidi o perversi. Il setting così scolasticamente definito mette in risalto come l’analista stabilisca le condizioni entro le quali si può svolgere l’interazione terapeutica, che possiamo considerare monopersonale e che il pazienze deve poter accettare affinché possa avviarsi il processo analitico.

Anche se Freud non lo ha mai definito in quanto setting, nei consigli da lui suggeriti per l’inizio del trattamento (1913) vengono poste alcune regole senza la pretesa che essa vengano accettate incondizionatamente, poiché, oltre che alla plasticità dei processi psichici e alla quantità dei fattori che intervengono, abbiamo a che fare con costellazioni psichiche molto differenti, che fanno sì che non si possa standardizzare una tecnica, da cui un procedimento considerato legittimo può rivelarsi inefficace mentre uno difettoso può andare a buon fine. Quanto al tempo, ad ogni paziente viene assegnata una certa ora della giornata lavorativa: quest’ora è sua ed egli deve risponderne anche se non la utilizza. Si potrà obiettare che esistano circostanze contingenti che possono impedire al paziente di essere presente alla seduta, tuttavia non si può fare altrimenti poiché un atteggiamento più comprensivo non farebbe altro che accumulare le sospensioni “occasionali”, favorendo le resistenze specie quando il lavoro promette di diventare più importante e ricco di contenuti. Le limitazioni di tempo non sono vantaggiose né per il medico né per il paziente e specie all’inizio devono essere categoricamente respinte. Già per brevi interruzioni capita sempre che il lavoro si insabbi un poco:

“… con un lavoro poco frequente esiste il pericolo che non si riesca a tenere il passo con l’esperienza reale del paziente, che la cura perda il contatto con l’attualità e venga sospinta su vie laterali.”

Anche riguardo alla posizione distesa Freud è categorico. Per quanto riguarda la posizione, egli insiste nella raccomandazione di far stendere il paziente su un divano, mente l’analista prende posto dietro di lui, in modo da non essere visto, sia per il motivo personale di non essere fissato per tutta la durata del lavoro da altre persone, sia perché, abbandonandosi ai propri pensieri inconsci, l’espressione del volto dell’analista può offrire al paziente materiale e influenzare le sue associazioni. Inoltre, anche per quanto riguarda la questione di quando rivelarli il significato delle sue idee, Freud così si esprime:

“Non prima che si sia instaurata nel paziente una efficace traslazione, un vero e proprio rapporto con il medico. La prima meta del trattamento rimane quella di legare il paziente alla cura e alla persona del medico. A questo scopo non occorre far altro che lasciargli tempo. Se gli si dimostra un interesse serio, se si eliminano accuratamente le resistenze che compaiono all’inizio e si evitano passi falsi, il paziente sviluppa da solo tale attaccamento e inserisce il medico fra le imagines di quelle persone dalle quali è stato abituato a ricevere del bene. Naturalmente ci si può giocare questo primo successo se dall’inizio si adotta un punto di vista che non sia quello dell’immedesimazione, per esempio un punto di vista moraleggiante, oppure se ci si atteggia a rappresentante o mandatario di una parte, per esempio dell’altro membro della coppia coniugale e simili.”

Tuttavia lo stesso Freud in una lettera a S. Ferenczi (1927) avverte che:

“… non è stato compreso il valore di elasticità delle regole che lui aveva posto, e gli analisti vi si sono sottomessi come riguardassero altrettanti tabù. Un giorno o l’altro tutto questo andrà riveduto, senza che gli obblighi di cui ho parlato debbano però andare ignorati.

Secondo Gabbard (2016) quando vengono applicati in modo eccessivo, i confini possono portare a una posizione controtransferale fredda e inflessibile, laddove uno dei paradossi della situazione analitica è la necessità di mantenere i confini professionali in modo tale che i due partecipanti abbiano la libertà di attraversarli psicologicamente. Ed aggiunge che

“… persino gli elementi fondamentali della cornice sono passibili di significati completamente diversi per analizzandi diversi. I gradi variabili di elasticità della cornice sono un riflesso non semplicemente dei bisogni specifici del paziente ma anche della soggettività dell’analista.”

Ritengo che sin da subito il setting sia alla base di quell’investimento particolare che viene fatto sulla figura dell’analista, in quanto il suo farsi conoscere poco e l’atteggiamento frustrante che egli mantiene nel non rivelare gli aspetti comuni di sé, fanno in modo di favorire una rappresentazione che si viene a caricare di contenuti non realistici, magici e spesso idealizzati della sua figura. Tale situazione in questo modo induce una modalità regressiva che contribuisce a creare nel paziente una condizione infantile che rende tale relazione asimmetrica rispetto alle comuni relazioni, ma che, se opportunamente trattata, fa sì che si venga a svelare il fraintendimento traslativo e a dare un significato più maturo alla stessa relazione terapeutica.

Si pone tuttavia la questione dell’estensione del trattamento classico alle situazioni cliniche più disparate, specie nei casi in cui non si è compiuto il normale processo di individuazione, con la conseguenza che non si sono costruite delle relazioni interne stabili e non si sono consolidate rappresentazioni definite di sé e degli altri, per cui l’utilizzo normale del setting, quando esso non venga adattato al tipo di paziente e  proposto come misura ordinaria, oltre che a creare delle difficoltà tecniche nella gestione del trattamento, può essere sentito dal paziente come predittivo del suo stato di malattia. L’utilizzo dei cosiddetti “parametri della tecnica” consente di stabilire delle regole non troppo restrittive, che costituiscono una “deviazione” dalla tecnica di base, che tuttavia consentono di adattare la tecnica psicoanalitica alla particolare struttura di personalità del paziente.  Per Anna Freud (1954) ogni regola tecnica risulta valida se è sostenuta dalla teoria, per cui ogni deviazione che non è sostenuta dalla teoria non può essere discussa con profitto. Esistono due atteggiamenti di fronte alle regole imposte dalla situazione analitica; il primo nasce dalla tentazione di gettare via le regole che si sentono troppo restrittive, l’altro atteggiamento consiste nel trincerarsi dietro le regole e utilizzarle come una barriera protettiva.

“Gli strumenti di ogni tipo vengono periodicamente esaminati, riveduti, affinati, perfezionati e, se necessario, modificati. Gli strumenti tecnici dell’analisi non fanno eccezione a questa regola. Come in tutti gli altri casi, è opportuno che le modificazioni non siano effettuate arbitrariamente e senza sufficienti motivazioni.”

Val la pena riprendere la distinzione fatta da J. Bleger nel 1967 tra processo (ciò che analizziamo e interpretiamo e che rappresenta la parte variabile della relazione terapeutica) e il setting (inteso come un non processo e che è costituito dalle costanti nel cui ambito il processo si svolge). Quindi Bleger aggiunge:

“Una relazione che si prolunga per anni con il mantenimento di una serie di norme e atteggiamenti non è altro che la definizione stessa di un’istituzione. Il setting è quindi un’istituzione nel cui ambito si verificano fenomeni che chiamiamo comportamenti. Quello che mi è risultato evidente è che ogni istituzione è una parte della personalità dell’individuo, ed è di tale importanza che … per lo meno una parte dell’identità si configura con l’appartenenza a un gruppo, un’istituzione, un’ideologia, un partito, ecc.”

Per lo stesso autore si stabiliscono due tipi di setting, quello che propone lo psicoanalista e che il paziente coscientemente condivide e quello fantasmatico che il paziente crea sulla base delle sue aspettative e delle proprie fantasie (anche quelle che si sono costituite per motivi di difesa) nei riguardi delle proprie figure traslative. La conclusione a cui arriva Bleger credo che sia condivisibile:

“Il setting è ciò che è più presente, come i genitori per il bambino. Senza di essi non c’è sviluppo dell’Io, ma il loro mantenimento oltre il necessario, o la mancata modificazione della relazione può rappresentare un fattore negativo, di paralisi dello sviluppo. In ogni analisi, il setting, anche se idealmente mantenuto, deve trasformarsi in tutti i modi in oggetto di analisi.”

Il setting va quindi inteso come una misura tecnica la cui funzione è di supporto al processo psicoanalitico, che deve essere distinto dalla funzione interpretativa la quale rappresenta lo strumento vero e proprio che ha a disposizione lo psicoanalista per far comprendere al proprio paziente ciò che avviene e quali siano i conflitti che si esprimono attraverso il suo stato di malessere. Si può tuttavia obiettare che seppur il setting rappresenti l’ambiente costante in cui il processo terapeutico si potrà svolgere, con una significativa funzione di protezione della relazione terapeutica, il rischio è che, se non siamo in grado di considerarlo semplicemente come uno strumento di lavoro che segue la stessa evoluzione della relazione transferale, diventi un prodotto ritualistico fine a sé stesso, anzi direi di ostacolo alla comprensione del processo terapeutico che si sta svolgendo, limitando la coppia terapeutica entro dei ruoli fissi che non sono facili da analizzare.

Riprendendo in considerazione ciò che A. Freud ha sostenuto, il setting se viene imposto tout court senza che vi sia una considerazione del livello del paziente e dell’impatto che su di lui si può determinare, è uno strumento che serve poco ai fini del lavoro terapeutico e viene il dubbio che esso venga applicato esclusivamente a difesa del terapeuta, col fine di creare a lui stesso una barriera di protezione di fronte agli “sbilanciamenti” del paziente verso comportamenti o messe in atto irritualistiche, dandogli anche una giustificazione tecnica quando esso non venga rispettato.

Sostengo l’idea che la relazione terapeutica rappresenti l’incontro fra due persone, l’analista e il paziente, che, in primo luogo, devono cercare di stare bene, il meglio che possono, durante il tempo in cui stanno assieme, in un clima di rispettosa condivisione e con l’obiettivo di svelare i motivi per i quali il paziente non vive bene la sua condizione, quella stessa che l’ha portato a rivolgersi a lui per cercare di risolverla. Su questa base si pone un rapporto paritario fra i due. Che poi l’analista venga investito di contenuti che non appartengono alla sua figura, ma che sono reviviscenze di relazioni del passato, quello è un compito che è relativo alla funzione interpretativa e che consente, quando vengano svelati, di rimettere in pari le cose, dando ad entrambi la giusta collocazione nella relazione. Utilizziamo quindi il setting, senza però perdere di vista il suo essere uno strumento, mentre la funzione interpretativa ha lo scopo di risolvere le proiezioni, esternalizzazioni ed idealizzazioni che l’uso di questo strumento favorisce, per cui al di là del fatto che il paziente si è rivolto al terapeuta, ad egli non spetta reificare quelle stesse figure di cui è stato investito, bensì le corregge affinché si possa stabilire una relazione che si possa basare su degli elementi più pertinenti. Corollaria a questa affermazione è che il setting non è mai uguale a sé stesso e per entrambi i partecipanti esso si modifica in modo continuo sulla base di come evolve la relazione terapeutica. La fantasia transferale inconscia implica che si stabiliscano particolari rappresentazioni del Sé e dell’oggetto e delle loro interazioni che, se anche si esprimono nel presente, riflettono l’esperienza passata con le figure maggiormente significative nella vita del paziente. L’investimento che viene fatto sul terapeuta può cambiare di volta in volta, sulla base delle esternalizzazioni che prevalgono in un momento rispetto all’altro e l’analista, consapevole di quanto avviene, provvede a correggere sensibilmente queste distorsioni, aiutando il paziente a collocare sé stesso nella relazione col terapeuta in una dimensione temporale che cerca di considerare i fattori contingenti alla situazione presente,  aiutandolo, più e più volte, a considerar la dissonanza che sta alla base delle sue estensioni sul terapeuta di rappresentazioni non attuali. Per quanto il paziente possa vedere nell’analista una delle figure del suo passato e quindi atteggiarsi verso di lui nei modi che ripetono quella stessa relazione, il contributo del terapeuta consiste nel fargli vedere come lui non abbia niente a che vedere con quella figura e che l’insistenza del paziente, sia in seduta che all’esterno, derivi dal suo bisogno di attualizzare quella stessa relazione per la necessità che ha di salvaguardare un senso di coerenza del Sé.  Tale lavoro fa parte del lungo processo di elaborazione che avviene quando l’interpretazione è corretta e richiede che essa venga ripetuta in modi e forme diverse, affinché possa venire assimilata dal paziente e possa produrre in lui dei cambiamenti. Ma quando tale processo si è compiuto è inevitabile che cambi anche il quadro d’assieme della relazione terapeutica, la quale non rimane identica a prima e implica che si innesti un altro processo, che possa condurre a nuove rivelazioni e insight sui modi di funzionare del paziente. Non voglio dare l’idea che vi siano livelli successivi di intervento, per cui esaurito uno si passi ad un altro, ma credo si possa sostenere che si agisce contemporaneamente su strati diversi e che sostanzialmente gli ambiti che vengono compresi diventeranno parte della nuova rappresentazione di Sé del paziente e, allo stesso tempo, risultino meno in evidenza di quelli che gli succederanno.

Riprendendo in considerazione un concetto che è stato introdotto da J. e A.M. Sandler nel 1984 e che a me pare non sia stato ben compreso o comunque sottovalutato, quello della funzione giroscopica della fantasia inconscia, specie delle fantasie transferali, con il compito di mantenere un costante equilibrio fra le diverse rappresentazioni del Sé e dell’oggetto nell’hic et nunc ed indica che qualunque cosa stimoli una reazione infantile deve venire trasformata facendo uso dei processi secondari o dei meccanismi di difesa disponibili (funzione giroscopica) perché il desiderio o la reazione del passato minaccia di causare uno squilibrio e di far sorgere un conflitto con i relativi sentimenti dolorosi.

“Il giroscopio di una fantasia nell’Inconscio Presente tesse i materiali grezzi disponibili trasformandoli in formazioni che a volte appaiono molto diverse dai materiali da cui sono state ricavate ed hanno una funzione adattiva e di equilibrio per l’individuo che è costantemente minacciato di perdere l’equilibrio. In particolare promuovono un adattamento intrapsichico grazie all’uso di vari meccanismi di difesa e la creazione di dialoghi e altre interazioni con gli oggetti di fantasia radicati negli introietti dell’infanzia.”

Nella terapia psicoanalitica l’asse di simmetria è rappresentato dall’uso del setting in tutte le forme in cui esso viene proposto e che  rimane il più stabile possibile, ed esso rappresenta la parte fissa attorno alla quale si dipana il processo di interpretazione, tuttavia la rotazione non è mai la medesima in quanto, per mantenere l’analogia con il giroscopio, cambia anche la spinta che di volta in volta viene impressa all’asse dalla situazione analitica, nella quale paziente e terapeuta determinano quali sono le forze coinvolte. L’identificazione empatica dell’analista ai sentimenti che prova il paziente, entro quell’asse di rotazione, e il fatto che egli gli restituisca la propria comprensione simpatetica delle cose, fa sì che il paziente possa sentirsi meno oppresso e intimorito da quegli stessi contenuti che gli imponevano il ricorso ad ogni tipo di difesa. Si giunge a degli insight significativi quando si modifica anche la funzione giroscopica, che non è più volta a rendere plausibili quei contenuti che prima erano fonti di conflitto, ma che ora vengono compresi ed integrati nella propria rappresentazione del Sé, diventando così abituali e conosciute espressioni di Sé, come ogni altra conoscenza che il paziente ha di se stesso.

Poniamo la situazione in cui analista e paziente si siano regolarmente incontrati in un contesto che entrambi hanno accettato, essi hanno saggiato l’uno le caratteristiche dell’altro mettendosi di continuo alla prova e hanno imparato a conoscersi e a fidarsi reciprocamente. Il paziente ha imparato a capire ciò che l’analista può dargli, mentre il terapeuta ha potuto scoprire le vulnerabilità e i modi in cui ancorare le proprie comprensioni al paziente. La loro alleanza, basata su ruoli diversi e definiti dal setting, ha fatto in modo che entrambi, in un gioco di identificazioni e controidentificazioni, siano ora in grado, allo stesso tempo, di raggiungere il risultato che assieme si erano proposti, che prima loro non conoscevano ma che ora è lì sotto i loro occhi. L’interrogativo che si pone a questo punto è se, al pari della rappresentazione di Sé del paziente, si modifica in conseguenza anche la struttura del setting, quand’esso sia servito per raggiungere quei cambiamenti che ora riconosciamo essere avvenuti nella relazione terapeutica, e, direttamente collegato a questo quesito, è se anche la rappresentazione di Sé del terapeuta cambia in conseguenza del risultato, frutto della relazione che egli è riuscito a stabilire con il proprio paziente.

Intendiamo l’identificazione come la modificazione del proprio campo rappresentazionale operata sulla base della rappresentazione di un oggetto assunto quale modello desiderato per la rappresentazione del proprio Sé. Non si può proprio sostenere che questo avvenga nell’identificazione del terapeuta col proprio paziente, in quanto l’identificazione che si opera in questa situazione è un’identificazione temporanea e reversibile che non si accompagna ad una modificazione durevole della rappresentazione del Sé, ma che è necessaria al terapeuta per potersi mettere nei panni del proprio paziente e per meglio capire quanto egli va descrivendo. Il passaggio successivo che viene operato dall’analista consiste nel recuperare la propria rappresentazione del Sé, disidentificandosi dai contenuti che erano stati oggetto della sua identificazione, per poter proporre in maniera comparata quanto è riuscito a capire vestendo i panni del paziente. Questa è già una risposta all’interrogativo che ci eravamo posti ed in pratica ciò che si modifica in seguito al processo che si crea nella situazione analitica è unicamente la rappresentazione del Sé del paziente, che ora assimila quei contenuti che il processo psicoanalitico ha permesso di rivelare, in virtù delle interpretazioni del terapeuta sul materiale offertogli dal paziente ed in seguito all’identificazione dello stesso con l’atteggiamento benevolo e tollerante dell’analista. Si può anche sostenere che la risposta favorevole del paziente operi in una forma che aumenta il bilancio narcisistico del terapeuta, ma tale gratificazione non ha nulla a che vedere con la sua identificazione al paziente. Tuttavia i cambiamenti che si sono prodotti nella rappresentazione di Sé del paziente implicano che si rinnovi la rappresentazione che egli ha del paziente e quindi dell’oggetto stesso con cui sta in relazione, al punto che fra le due rappresentazioni si venga a stabilire una diversa condizione che altera l’omeostasi precedente. Si potrà ora sostenere che si viene a determinare una relazione diversa da quella di prima, che ha inevitabilmente dei caratteri differenti in quanto è cambiato il quadro d’insieme del rapporto. Questo significa, come diceva Bleger, che il setting, anche se idealmente mantenuto, possa ora diventare oggetto di analisi e considerare le ragioni tecniche che hanno condotto al suo impiego, affinché il paziente possa disporre di una utile chiave di comprensione del processo che è avvenuto. Tutto questo può apparire alquanto macchinoso ma a ben guardare rappresenta proprio quel che normalmente facciamo nel corso delle nostre sedute e a questo proposito ci si può riferire ad un esempio clinico per meglio comprendere questo passaggio, meglio ancora se si tratta di una situazione clinica presa in “prestito” al fine ridurre la faziosità della scelta.

Traggo l’esempio da R.R. Greenson (1967) il quale sostiene:

“Sia per il paziente che per l’analista le reazioni di transfert sono reali ed inappropriate, ma sono anche vissute come genuine e sincere. Per entrambi l’alleanza di lavoro è realistica ed adeguata, ma è un artificio della situazione terapeutica. Per entrambi infine il rapporto reale è genuino e reale. Il paziente fa uso dell’alleanza di lavoro al fine di comprendere il punto di vista dell’analista, ma, quando insorgono le risposte transferali, queste prendono il sopravvento. Nell’analista l’alleanza di lavoro deve avere il sopravvento su qualsiasi altra sua reazione manifesta al paziente.”

L’esempio al quale Greenson si riferisce è il seguente:

“Un giovane, verso la fine di un’analisi durata cinque anni, dopo una mia interpretazione esita un po’, e quindi mi dice che c’è qualcosa che gli riesce molto difficile comunicarmi. Avrebbe anche lasciato perdere, ma si era reso conto che questo punto l’aveva lasciato perdere per anni. Dopo un profondo sospiro dice: “Lei parla sempre un po’ troppo; tende ad esagerare. Mi sarebbe molto più facile andare in bestia con lei, dicendole che non ha capito niente, che è fuori strada, o magari non risponderle. Ma mi è terribilmente difficile dirle invece quello che penso, perché so che la ferirà.”

Credo che il paziente avesse percepito correttamente alcuni miei aspetti e non mi è stato certo gradevole sentirmeli rinfacciare. Gli dissi che aveva ragione, ma che volevo sapere perché gli fosse più difficile parlarmi in modo semplice e diretto, come aveva appunto fatto, piuttosto che arrabbiarsi. Mi rispose che sapeva per esperienza che io non me la sarei presa per la sua sfuriata che, evidentemente, apparteneva alla sua nevrosi e quindi non mi avrebbe toccato. Dirmi invece che io parlavo un po’ troppo e che esageravo, era una critica personale, che mi avrebbe ferito. Egli mi sapeva molto orgoglioso della mia perizia di terapeuta. In passato temeva che io avrei potuto vendicarmi, ma adesso sapeva che ciò era molto improbabile. D’altronde, non ne sarebbe poi morto.”

Il commento dell’autore è che il paziente aveva percepito certe cose correttamente ed era stato capace di prevedere le sue reazioni in modo realistico, diversamente dal passato quando le sue fantasie sulle possibili reazioni del terapeuta erano del tutto irrealistiche e frutto delle sue deformazioni transferali. Si può tuttavia osservare come si sia potuta modificare la relazione terapeutica in seguito ai successivi interventi interpretativi dell’analista, che hanno svelato al paziente la natura traslativa delle sue percezioni e l’inganno sottostante. Si può obiettare che la situazione riferita è relativa ad un’analisi ormai alla stadio conclusivo e quindi ad una fase non più nevrotica della relazione terapeutica e per questa ragione, per sostenere come si modifichi la relazione terapeutica in seguito ad un intervento corretto dell’analista, mi rivolgo ad un secondo caso clinico dello stesso autore, in cui viene descritta una reazione transferale che appare inappropriata verso la persona del terapeuta, ma che è adeguata verso una persona del passato:

“Ad esempio, una giovane paziente reagisce al fatto che ho dovuto farla aspettare due o tre minuti piangendo ed arrabbiandosi, e fantasticando che io abbia concesso più tempo alla mia paziente preferita. Questa è una reazione del tutto inappropriata in una donna intelligente e colta di trentacinque anni, ma le sue associazioni la portano ad una situazione passata nella quale questo insieme di fantasie e di sentimenti era assolutamente appropriato. Ricorda le reazioni che provava quando, bambina di cinque anni, aspettava che suo padre venisse nella sua stanza a darle il bacio della buonanotte. Doveva sempre aspettare qualche minuto perché suo padre regolarmente dava prima il bacio della buonanotte alla sorella minore. A quel tempo reagiva con pianti, rabbia e fantasmi di gelosia, cioè proprio quello che aveva provato oggi con me. Le sue reazioni erano adeguate per una bambina di cinque anni, ma ovviamente non lo erano più per una donna di trentacinque. La chiave per la comprensione di questo comportamento è il riconoscimento che si tratta di una ripetizione del passato, cioè di una reazione transferale.”

L’interpretazione dell’analista fa in modo che la paziente possa capire quello che sta inconsapevolmente agendo sulla figura presente e quindi corregge la tendenza automatica e perentoria che la porta a trasporre sulla figura attuale le rappresentazioni del proprio passato. Compiuto questo processo, quando la paziente si rende conto che ciò che sta ripetendo è un comportamento che è inappropriato alla situazione del qui ed ora, inevitabilmente, quando esso è stato sfrondato dagli orpelli appartenuti ad un’epoca remota, si modifica anche la relazione attuale con l’analista, che non contiene più quegli elementi che sono stati dissotterrati e resi fruibili alla paziente per la comprensione del suo modo di funzionare nel presente. Si modifica di conseguenza anche la relazione terapeutica per cui il rapporto con l’analista non può più essere quello di prima, ma alla situazione precedente si sono aggiunti dei contenuti nuovi che rendono diversa tale relazione, quando la paziente divenuta consapevole dell’estensione verso il terapeuta di vissuti appartenuti ad un’altra epoca, può ora ricalibrare la relazione presente. Il rituale del setting ha consentito alla paziente di esternalizzare le proprie rappresentazioni, ma ora esse, così com’erano, non servono più, almeno per quegli assunti che sono riusciti ad emergere, ed ora lo stesso setting può essere oggetto di analisi e sostanzialmente modificarsi non tanto nella forma quanto nella sua idea. Analista e paziente è come se concordassero una diversa concezione dello stesso con lo scopo di attivare delle nuove trasposizioni che, utilizzando la figura dell’analista, possono svelare nuove rappresentazioni in conflitto con la situazione presente. Questo processo indica che il setting è uno strumento dinamico, mai uguale a se stesso e in continua trasformazione, anche quando rimane identico a se stesso, una sorta di caleidoscopio che cambia costantemente l’immagine che vi è impressa, ma che sostanzialmente è contenuto dentro quello strumento anche quando l’immagine si è modificata. Lo strumento è e rimane il setting, ma l’interpretazione imprime al setting la rotazione necessaria affinché l’immagine possa cambiare. Faccio riferimento ad una situazione clinica per meglio illustrare quanto sto affermando:

“Una mia paziente, con la quale avevo da poco cominciato una terapia, all’inizio di ogni seduta mi chiede come io stia e aspetta che io le risponda adeguatamente. Il ripetersi di questa modalità mi porta a chiederle quanto sia importante per lei accertarsi che vada tutto bene e che io sia dell’umore giusto, come la volta precedente e che non è cambiata la mia disposizione verso di essa. La volta successiva inizia dicendomi che si sta forzando di non chiedermelo, ma poi mi domanda perché io non le dia informazioni riguardo alla mia persona, poiché questo le serve per collocare ciò che io penso e come agisco nella mia vita reale a confronto con i suoi modi abituali di pensare ed agire e quindi per valutare se ci sia corrispondenza nel nostro modo di considerare i fatti. Le rispondo che comprendo quanto lei possa sentire sbilanciata la nostra relazione, ma che se lo facessi ridurrei in lei la possibilità di essere per lei quella figura relativamente neutra sulla quale operare ciò che lei sente. Lei passa a parlarmi di come in casa sua non le era data nessuna spiegazione delle cose e non esisteva nessun tipo di intimo dialogo fra i familiari, tutto avveniva così e così doveva essere preso, senza interrogarsi su nulla. Mi descrive poi un gioco fatto con un gruppo di amici durante l’ultimo fine settimana, a casa di un amico un po’ particolare che vive solitario in un luogo di montagna, che aveva proposto l’esplorazione notturna di una zona impervia affidandosi esclusivamente alla fioca luce di una candela. Lei non aveva provato nessun sentimento particolare e coinvolta dal gruppo s’era mossa con prudenza, ma nell’entrare in una grotta posta al di sopra di lei aveva rifiutato la mano che le porgeva un’amica e poi scendendo aveva trovato la soluzione di scivolare sul fogliame, arrangiandosi come poteva e senza chiedere aiuto.

Posso ora mostrarle come, nella nostra situazione, lei si sia rivolta a me per risolvere delle questioni alle quali non riesce a trovare una soluzione, che implica il fatto di stabilire una relazione di fiducia con qualcuno che le tende una mano, ma come nello stesso tempo non può concedersi di attribuire un sentimento di fiducia al buio, in quanto ha dovuto trovare sempre da sé le soluzioni ai suoi problemi.”

L’interpretazione avviene all’interno di un setting che viene mantenuto, ma il quadro stesso del setting si modifica dopo l’interpretazione ed ora include un sentimento di fiduciosa attesa di poter essere aiutata ad affrontare le proprie difficoltà. Considero il setting uno strumento dinamico la cui risoluzione avviene quando nel paziente avviene una comprensione condivisa di quello che accade, nella situazione presente e in quelle che lo legano alle proprie vicende passate, ma questo non significa che si possa fare a meno di esso, bensì che il setting cambia quando esso viene ad includere dei contenuti che prima non erano chiari né al paziente né all’analista e che con la sua interpretazione hanno potuto essere svelati nella relazione terapeutica e l’hanno modificata. Questo è il senso che do all’affermazione di Bleger che il setting, anche quando venga idealmente mantenuto, debba comunque trasformarsi in oggetto di analisi.

Si pone il problema di considerare quale sia in effetti la funzione del setting e che cosa esso comprende quando ne facciamo uso, dal momento che da strumento esso stesso diventa processo ed è anch’esso soggetto alle rielaborazioni che l’interpretazione innesta nella situazione terapeutica. J. Bleger nel suo contributo (1966) sostiene:

“Il setting si mantiene e tende a essere mantenuto (attivamente dallo psicoanalista) invariabile e, mentre esiste come tale, sembra inesistente o non viene preso in considerazione, come accade con le istituzioni o le relazioni delle quali si prende coscienza solo e proprio quando vengono a mancare, si interrompono o smettono di esistere. Ma qual è il significato del setting quando si mantiene? …. Ciò che esiste sempre, non si percepisce finché non viene a mancare. … La simbiosi con la madre consente al bambino lo sviluppo del proprio Io; il setting ha la stessa funzione: funge da sostegno, da cornice, ma riusciamo a vederlo, per ora, solo quando si modifica o si rompe.”

Poi più avanti:

“In sintesi, possiamo dire che il setting del paziente e la sua fusione più primitiva con il corpo della madre e che il setting dello psicoanalista deve servire per ristabilire la simbiosi originaria, ma proprio al fine di modificarla. Sono problemi tecnici e teorici, sia la rottura del setting che il suo mantenimento ideale o normale, ma quello che altera fondamentalmente ogni possibilità di trattamento profondo è la rottura che lo psicoanalista introduce o accetta nel setting. Il setting può essere analizzato soltanto all’interno del setting o, in altri termini, la dipendenza e l’organizzazione psichica più primitiva del paziente possono essere analizzati soltanto all’interno del setting dell’analista, che non deve essere né ambiguo, né variabile, né alterato.”

 

In questo senso la stabilità del setting produce in se stessa un’azione terapeutica e di sviluppo ed in sé non ha nulla di formale o ritualistico ma è l’espressione della relazione che paziente ed analista condividono all’interno della situazione analitica. La rottura del setting rappresenta una difficoltà dentro quella relazione e come tale essa deve venir compresa anch’essa mediante l’uso dell’interpretazione, allo stesso modo per cui l’analista interpreta i fatti del paziente riferiti a lui. Le condizioni formali del trattamento non hanno in sé nessuna rilevanza se non per il fatto di riferirsi alla relazione in atto, per cui l’interpretazione deve essere diretta a cogliere le resistenze e le difese che si esprimono nella condizione di rottura del setting. Come sostenuto da C. Genovese (1988):

“La dicotomia tra setting e interpretazione tende allora a svuotarsi di senso, almeno nell’accezione tradizionale, giacché entrambi i fattori sono agenti maturativi e di trasformazione.”

Ci si può chiedere quale sia la relazione tra il setting e la traslazione che si produce nella situazione analitica.

Definendo la traslazione S. Freud (1901b) così si espresse:

“Che cosa sono le traslazioni? Sono riedizioni, copie degli impulsi e delle fantasie che devono essere risvegliati e resi coscienti durante il progresso dell’analisi, in cui però – e questo è il loro carattere peculiare – a una persona della storia precedente viene sostituita la persona del medico. In altri termini un gran numero di esperienze psichiche precedenti riprendono vita, non però come stato passato, ma come relazione attuale con la persona del medico.”

Quanto a ciò che stimola la traslazione analitica molti sono gli autori che indicano nel setting la condizione principale che induce una situazione regressiva tendente a favorire la rappresentazione di quel “falso nesso” che costituisce l’essenza stessa della traslazione che si verifica in analisi. I. Macalpine (1950) indica quindici fattori che nel loro insieme contribuiscono a creare il setting tipico della tecnica psicoanalitica definito come:

“L’immutabilità di un ambiente costante, passivo che costringe il paziente a regredire a livelli infantili … e che si mantiene per tutta la durata del trattamento.”

Il difetto presente nel pensiero della Macalpine è di considerare la traslazione come un processo endopsichico dovuto all’influenza delle condizioni esterne o formali in cui si svolge la terapia psicoanalitica, suggerendo che il setting eserciti una funzione “suggestiva” sul paziente a causa della sua “suggestionabilità” che apre le porte ad una catena di associazioni nella sua mente, al punto che interrogandosi sul motivo per cui la traslazione si riproduca invariabilmente in ogni analisi, ella può sostenere che:

“… la traslazione è indotta dall’esterno in modo simile a quello in cui si instaura l’ipnosi.”

Più avanti aggiunge:

“A differenza di qualsiasi altro terapeuta, l’analista resta al di fuori della rappresentazione che il paziente sta recitando; egli guarda e osserva le reazioni e gli atteggiamenti del paziente in isolamento.”  

Nell’importante revisione operata da M. Gill (1984) sui criteri che distinguono la psicoterapia dalla psicoanalisi l’autore ridefinisce sia i criteri “estrinseci” (alta frequenza delle sedute, uso del lettino, selezione dei pazienti, ecc.) sia i tradizionali criteri “intrinseci” come l’analisi del transfert, la neutralità dell’analista, l’induzione di una nevrosi di transfert e l’uso privilegiato dell’interpretazione. Di questi criteri egli mantiene solo il primo, facendo dipendere gli altri dall’analisi del transfert.

La revisione che propone Gill riguarda il cambiamento che c’è stato in lui rispetto al transfert e alla sua analisi, proponendo delle modifiche ai criteri intrinseci che aveva accettato nel 1954, in una prospettiva che definisce il transfert alla luce dell’interazione tra il paziente e l’analista. Egli sostiene che il setting e il comportamento dell’analista inevitabilmente influenzano gli schemi dell’interazione interpersonale e che, in questo senso, influiscono sul transfert, divenendo veicoli di una suggestione involontaria che, se non viene controllata, esercita degli effetti che non possono essere riconosciuti o corretti. Il primo criterio intrinseco della psicoanalisi è per Gill la centralità del transfert, che per la psicoanalisi, a differenza della psicoterapia, è un dato irrinunciabile. In un articolo del 1979 e in una monografia successiva (1982) Gill aveva sostenuto che   il concetto di un transfert “incontaminato” è un mito, in quanto il transfert è sempre influenzato dall’interazione “qui ed ora” tra l’analista e il paziente, al punto tale che il transfert avrà sempre qualche grado di verosimiglianza che è collegato alla figura dell’analista. L’idea comune è che il paziente distorce la situazione costruendola nei termini dei suoi modelli intrapsichici, mentre Gill avanza l’opinione che il comportamento del terapeuta (quello che fa e quello che non fa) fornisce attendibilità all’esperienza del paziente, offrendo dei contributi che sono diversi da caso a caso.

C’è un punto dell’elaborazione di Gill che a me sembra particolarmente importante e per certi versi sottovalutato, quando egli afferma che Il paziente non si limita ad esperire la situazione analitica in un modo che corrisponde alle sue preconcezioni, sia consce che inconsce, ma si comporta anche in modo tale che il terapeuta confermi queste sue preconcezioni, dando loro, di volta in volta, maggior plausibilità (il concetto di Sandler della “risonanza di ruolo” [role responsiveness] dell’analista). Detto altrimenti il paziente stimola il controtransfert e l’aiuto più importante per il terapeuta nello scoprire il proprio controtransfert è dato dall’interpretazione di esso da parte del paziente, in gran parte attraverso riferimenti mascherati nelle sue associazioni. Considero questo come un passaggio particolarmente interessante ed innovativo della concettualizzazione di Gill, il quale afferma come anche il paziente sia in contatto con l’inconscio dell’analista e ne sia un interprete cogliendone le espressioni attraverso le sue associazioni o altri riferimenti più o meno dissimulati.

Quando poi Gill passa a considerare il secondo dei criteri intrinseci che definiscono la psicoanalisi rispetto agli altri metodi di cura, vale a dire la neutralità dell’analista sostiene che il concetto di neutralità rischia di porre sullo sfondo l’analista e di non consentirgli di elaborare il proprio controtransfert, anche sulla base del travisamento che il paziente fa delle sue intenzioni. Egli ritiene che questa supposta neutralità conduca l’analista a un forte grado di riluttanza a impegnarsi in una relazione con il paziente.

“È come se cercassimo di impedire che il paziente fraintenda le nostre intenzioni, non avendo intenzioni.”

Dal momento che l’analisi avviene in un contesto interpersonale, non è possibile la non interazione. Anche il silenzio è un comportamento, ma non si può sostenere che il silenzio sia preferibile ai fini analitici perché esso è veramente neutrale. Gli effetti involontari che questi comportamenti hanno sul transfert possono sfuggire all’analista, persino anche quando ha le migliori intenzioni. Con questa consapevolezza, l’analisi del transfert prende ora un aspetto nuovo e questi aspetti possono più facilmente essere riconosciuti se l’analista è consapevole del ruolo che l’interazione qui-e-ora gioca sulle manifestazioni di transfert.

Diventa quindi di fondamentale importanza collegare anche il setting alla relazione che si viene a stabilire, nella situazione analitica, tra il paziente e l’analista, dove ognuno porta all’interno di essa il carico delle proprie aspettative e dei bisogni più o meno mascherati, con le loro valenze affettive.

Per Massimo Ammaniti (1989):

“… gli affetti non sono semplicemente il segnale di una interazione attuale e contingente ma sono parte integrante della rappresentazione del Sé e delle figure significative.”

Seguendo J. e A.M. Sandler (1998):

“Il ruolo giocato dall’esperienza affettiva nello sviluppo delle relazioni oggettuali (vale a dire delle relazioni di ruolo strutturate) è centrale. Un’esperienza soggettiva ha, e conserva significato per il bambino, solo se è collegata ad un sentimento. Partiamo dal presupposto secondo cui qualsiasi cosa, per avere significato, deve essere evolutivamente e funzionalmente connessa a stati emotivi; e un’esperienza che non ha qualche relazione con un’emozione non ha alcun significato psicologico per l’individuo.”

Essi definiscono il processo che avviene in qualsiasi relazione, e a maggior ragione nella situazione analitica, dove:

“Ciascun partner, in ogni momento, ha un ruolo per l’altro con il quale negozia per ottenere un particolare tipo di risposta. Una gamma completa di sentimenti, desideri, pensieri e aspettative è coinvolta nell’interazione che caratterizza la relazione in corso tra due persone.”

Quindi:

“Il dialogo oggettuale segue un preciso copione.la tendenza all’attualizzazione fa parte dell’aspetto di soddisfacimento di desiderio di tutte le relazioni oggettuali.”

Più avanti:

“L’oggetto ha un ruolo altrettanto importante quanto il Sé, nella rappresentazione mentale che è parte del desiderio. Siamo costantemente spinti a reintegrare un sentimento di sicurezza, benessere e “conferma”, ad ottenere il nutrimento o alimento necessario per sentirci “bene” e mantenere un sentimento di base di sicurezza e integrità; e lo facciamo quasi automaticamente attraverso il dialogo con gli oggetti, nella realtà o nella fantasia. Se consideriamo le relazioni oggettuali come realizzazioni di desiderio in senso ampio, allora il soddisfacimento della relazione oggettuale desiderata si realizza quando viene trovato un oggetto (nella realtà, nella fantasia, o in entrambe) che agisce e reagisce in modo appropriato.”

Da queste considerazioni giungiamo all’idea che il valore terapeutico che possiamo riconoscere alla situazione che si viene a creare durante il processo psicoanalitico è determinato dalla relazione che si viene a stabilire nel corso della terapia, relazione che coinvolge entrambi i protagonisti in un gioco di identificazioni e controidentificazioni mutevole e incessante, dove il quadro della relazione non rimane mai uguale a se stesso, considerando che quando una rappresentazione si modifica, essa agisce anche sulla rappresentazione complementare apportando sempre nuove rappresentazioni. Il setting fa parte della relazione terapeutica e come tale la influenza e ne determina i contenuti e, come la relazione che cambia, anch’esso è soggetto a quelle variazioni caleidoscopiche che seguono il corso della relazione. Il setting è uno strumento che non possiamo definire statico, dato dalle regole formali in cui si svolge il processo psicoanalitico, perché inserito nel contesto della relazione diviene egli stesso processo e ne segue l’evoluzione, cambiando con la relazione medesima e assumendo forme diverse a seconda di come essa muta.

Quello che possiamo aggiungere è che il setting cambia e deve cambiare dopo ogni insight significativo in quanto si modifica la relazione terapeutica e le conseguenti rappresentazioni, la quale non rimane mai uguale a se stessa e segue l’evoluzione che paziente ed analista compiono durante il loro percorso, allo stesso modo di come si modifica la relazione tra la madre e il proprio bambino durante le varie fasi della crescita e collegata a questo principio è l’idea dell’adattamento che entrambi i soggetti della relazione compiono durante questo processo affinché essa possa evolversi e, in maniera graduale, consentire al paziente, superati gli ostacoli che ne impedivano lo sviluppo, di acquisire quelle capacità di autonomia che lo portano a non aver più bisogno del terapeuta, allo stesso modo del bambino quando ha immagazzinato riserve sufficienti per potersi allontanare dai propri genitori.

Tornando all’interrogativo da cui ero partito e cioè dall’insofferenza nei riguardi delle regole formali in cui si svolge il lavoro psicoanalitico diventa comprensibile tale sentimento quando il setting debba venire semplicemente considerato come un impianto di regole che vanno dicitate ad inizio del lavoro terapeutico in maniera disgiunta dal processo, senza che entrino a far parte della relazione terapeutica in quanto aspetto di essa ed espressione della necessità di comunicare al paziente di trovarsi in un luogo protetto, dove può sentirsi accolto e rassicurato rispetto alle proprie paure. Non ha neppure molta rilevanza dire al paziente come si svolgerà il nostro lavoro comune, quanto piuttosto trasmettergli il significato che noi attribuiamo al setting e rassicurarlo che faremo fronte comune nel cercare di comprendere le proprie difficoltà. Ecco, allora, che il setting diventa processo e come tale può operare dei cambiamenti nel mondo rappresentazionale del paziente.

Rispetto al setting, come viene normalmente concepito, vi pone l’interrogativo se quando vi sia una deviazione dalla tecnica standard per cui è necessario, per dirla con   K. Eissler, introdurre un parametro, si tratta di qualcosa che è possibile definire come l’adattamento del terapeuta alle condizioni richieste dal paziente per fare in modo che la terapia possa svolgersi e, in ultima analisi, al costituirsi della relazione di setting, l’unica possibile in quel dato momento e alle condizioni poste da quel contesto terapeutico. Si deve riconoscere che Eissler non è contrario all’uso dei parametri al fine di mantenere incontaminata la tecnica analitica classica, ma sostiene che, in quel caso, il processo che si svolge è diverso da quello che riconosce all’interpretazione l’unico strumento di elaborazione dei conflitti del paziente. L’aspetto essenziale che implica il ricorso a queste deviazioni dalla tecnica di base e che possano venire risolte facendo nuovamente uso dell’interpretazione (1953).

“Ogni introduzione di parametro comporta il rischio che venga temporaneamente eliminata una resistenza senza che sia stata adeguatamente analizzata. Quindi dopo aver rimosso un ostacolo attraverso un parametro, il significato che questo parametro ha avuto per il paziente e le ragioni per cui è stata necessaria la sua scelta, devono essere esaminati in modo retrospettivo, vale a dire che l’interpretazione deve diventare di nuovo lo strumento esclusivo per correggere il turbamento che è stato provocato dall’uso del parametro.”

 

  1. Reich (1957) sostiene che la relazione con l’analista può diventare la prima effettiva relazione oggettuale affidabile nella vita del paziente, a cui gli fa eco D. Winnicott (1957) affermando che l’analista madre-ambiente “sufficientemente buono” costituisce la nuova opportunità perché il vero Sé del paziente possa disvelarsi. Sostanzialmente per questi autori la terapia implica lo svilupparsi di un’esperienza emozionale correttiva con la funzione di offrire a questi pazienti delle figure che acquistano un carattere di stabilità e che possono venire interiorizzate mediante la loro presenza benevola e costante.

Anche A. Freud (1954) si è posta la questione se si tratta di modificare le regole come tali o di adattare le regole alle caratteristiche del singolo paziente affinché si possa stabilire una relazione di traslazione.

Per essa:

“… possiamo dire che le variazioni della tecnica analitica diventano necessarie ogniqualvolta un caso ci porta ad aspettarci delle manifestazioni di traslazione o resistenza che superino in forza o in pericolosità i livelli che siamo in grado di affrontare. Nella nostra valutazione della posizione da assumere dobbiamo essere guidati non da una diagnosi descrittiva del caso ma da un insight della sua struttura.”

Credo che la questione non sia se si debbano introdurre dei parametri in quanto deviazioni dalla tecnica standard, poiché in certe condizioni diventano uno strumento indispensabile per operare in terapia, ma piuttosto se è possibile ricondurre il processo terapeutico al modello di base, il quale prevede che i conflitti, anche quelli per affrontare i quali si sono introdotti dei parametri, possano essere analizzati e risolti attraverso l’interpretazione di essi, specie quando le interpretazioni riguardano la relazione di transfert e le varie distorsioni che la situazione terapeutica favorisce.

Facendo riferimento a Sandler (1973):

“… l’analista si troverà spesso a rispondere apertamente al paziente in un modo che egli può sentire indicativo solo dei suoi (dell’analista) problemi, delle sue macchie cieche; e l’analista può con successo ricorrere all’auto-analisi per scoprire gli elementi patologici dietro la sua particolare risposta e il suo particolare atteggiamento verso il paziente. Comunque voglio suggerire che molto spesso le risposte irrazionali dell’analista che è guidato dalla sua consapevolezza professionale a riconoscere le sue stesse macchie cieche, possono a volte essere utilmente considerate come una formazione di compromesso fra le sue tendenze professionali e la sua accettazione riflessa del ruolo che il paziente sta cercando di imporgli.” (J. Sandler, 1976)

In un precedente scritto avevo sostenuto che il concetto di “Persistenza delle strutture” così come è stato studiato ed elaborato da J. Sandler (1967), secondo il quale “nessuna struttura psicologica va mai persa” può essere osservato nel processo di controtraslazione e rappresenta quella modalità per cui una parte di noi aderisce all’induzione di ruolo promossa dal paziente, in virtù della capacità di non inibire, almeno inizialmente, le strutture preesistenti alle attuali. Nel controtransfert si manifesta l’induzione riflessa dell’analista dovuta al fatto che gli investimenti transferali introdotti dal paziente sollecitano le rappresentazioni interne del Sé e dell’oggetto facenti parte dell’esperienza interiore dell’analista, che danno forma ad un modello rappresentazionale intermedio in cui confluiscono i contributi di entrambi i partecipanti alla relazione terapeutica e che, pertanto, il controtransfert debba quindi venire considerato come il prodotto congiunto di paziente ed analista.

Mi chiedo ora perché questo atteggiamento non possa venire assimilato al procedimento standard di una terapia che si pone come compito l’elaborazione dei conflitti del paziente facendo uso dell’interpretazione dei contenuti transferali? Mentre la tecnica di base era stata concepita in relazione alla teorizzazione prevalente durante gli anni di sviluppo della psicoanalisi, per cui i conflitti erano visti come se riguardassero lo scontro fra istanze diverse appartenenti all’apparato psichico, l’ampliarsi dell’uso del trattamento ai disturbi non nevrotici ha fatto in modo che venissero coinvolti nella terapia aspetti e funzioni dell’Io molto diversi. Non solo un semplice conflitto fra desideri e istanze contrapposte, ma lo scontro fra il bisogno altrettanto fondamentale per la persona, quello della sicurezza, e la paura dell’annientamento. Ciò implica che la qualità dell’angoscia sia notevolmente diversa e la sua intensità comporta che, con questi pazienti, si debba ricorrere a modalità di lavoro che riguardano la necessità di ridurla, affinché non superi una determinata soglia di tollerabilità, oltre la quale è da irresponsabili mantenerla. Dal mio punto di vista i modi per affrontare questo conflitto sono gli stessi che si usano nella tecnica di base, solo che in questo caso i conflitti hanno una natura diversa e coinvolgono i bisogni primari di sicurezza della persona.

Fondamentalmente e al di là delle modificazioni rese necessarie alla situazione terapeutica, ritengo che la tecnica rimanga la stessa, anche se i conflitti coinvolti si situano in una dimensione diversa da quella pulsionale, forse richiedono più tatto nell’affrontarli, tuttavia gli elementi traslativi, ed il loro essere inadeguati alla situazione presente, seppure in forme e tempi più dilatati, mantengono il focus del nostro intervento, così come la loro interpretazione.

Si annulla, in questo caso, la dicotomia fra i “puristi” della psicoanalisi e coloro che sostengono la necessità di introdurre delle deviazioni alla tecnica classica, divenendo un non problema laddove il nostro obiettivo rimanga l’elaborazione e la risoluzione dei conflitti patologici della persona, potendo ricorrere in ogni caso all’uso dell’interpretazione quando e se le condizioni lo consentiranno. L’atteggiamento che ritengo vincolante in questa prospettiva è quella definita da Giovanni Pieralisi (2015) come la “postura psicoanalitica”:

“… si ritiene faccia parte non solo di un particolare modo di porsi nei confronti dell’altro come persona, ma anche dell’altro come problema, come concetto da esaminare e su cui riflettere: che faccia parte in fondo di un modo di pensare intorno alle cose.”

Quando questo atteggiamento venga assunto nel proprio essere in maniera coerente e viene vissuto come parte del proprio sé, accettandone anche il dolore e la fatica che ne comporta, allora acquista valore l’affermazione di R. Loewenstein (1957):

Nessuna obiezione può essere sollevata contro la decisione di un analista di modificare la propria tecnica per aiutare un paziente a guarire, piuttosto che privarlo di una possibile cura per evitare che l’ ”oro dell’analisi” perda la sua purezza.”

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