TEORIE E COSTRUTTI TEORICI

Considerazioni introduttive. E’ generalmente accettato che uno psicoanalista, quando ha a che fare con un proprio paziente, elabori al proprio interno una sua teoria, che non necessariamente ha a che vedere con un insieme teorico codificato ed ufficiale. Viene anzi da pensare che in questa personale teoria convivano aspetti fecondi e originali, accanto a contraddizioni e incoerenze rispetto a un modello teorico di base. E’ sorprendente che nel momento della seduta col paziente non facciamo, in genere, riferimento a quel tale meccanismo o a quel particolare stadio descritti dalla teoria, non cerchiamo di vedere confermato quel tale complesso o quella particolare struttura psichica. Sandler dice che l’analista:

“A livello conscio non deve darsi troppo pensiero di dover fare aderire diverse parti della teoria, né di far coincidere la teoria alla sua esperienza clinica, e imparerà a muoversi da una parte all’altra della sua teoria senza rendersi conto di aver superato diversi punti della sua teoria che sono concet – tualmente deboli.” (J. Sandler, 1983)

Nel nostro lavoro ci poniamo, quindi, in una particolare situazione di ascolto, in cui cerchiamo di capire e di tradurre ciò che il paziente ci sta dicendo in quel momento. Non ha neppure molta importanza avventurarci in una ricostruzione che non ha in sé alcun valore terapeutico, il cui unico interesse è legato a una riconsiderazione in termini storici degli eventi del paziente. Sempre secondo Sandler:

“Da ciò consegue che l’analista deve prestare attenzione all’attuale conflitto o preoccupazione dominante che viene censurata (cioè a cui il paziente pone resistenza) e interpretarle in modo tale che il paziente possa provare sollievo, e a tale scopo dovrebbe far uso di interpretazioni adeguate, preferibilmente nel contesto del transfert, del dolore e disagio che il paziente sta vivendo.” (J. Sandler – A. M. Sandler, 1984)

Più avanti continua dicendo:

“Tuttavia, una volta che il paziente è stato capace di accettare, nell’hic et nunc, la realtà dei pensieri e dei sentimenti che occupano il 2° sistema, in particolare i pensieri e le fantasie che sorgono nel transfert, e che la sua (seconda censura) resistenza è sparita in quel particolare contesto, è appropriato ricostruire ciò che è accaduto nel passato, assumere una prospettiva genetica, sapendo che tali ricostruzioni hanno come principale funzione quella di fornire una dimensione temporale all’immagine che il paziente ha di sé in relazione al suo mondo, e aiutarlo a tollerare maggiormente gli aspet- ti precedentemente inaccettabili del ‘bambino che è dentro di lui’.” (J. Sandler -A.M. Sandler, 1984)

E’ indubbio, comunque, che il terapeuta, quando sta con il suo paziente, faccia riferimento ad un insieme più o meno organizzato e più o meno consapevole di idee, con lo scopo, non sempre dichiarato, di elaborare un costrutto o teoria parziale su quanto, di volta in volta, il paziente gli viene a dire riguardo a sé e alla relazione con gli altri, compresa quella che egli ha, in quel momento, con l’analista.

Ciò che mi propongo è di considerare come nel nostro lavoro con i pazienti cerchiamo di collocare quello che essi ci dicono entro degli schemi organizzati e di riferimento personali, che possiamo definire teorici, non solo nel senso delle teorie che vengono prese a prestito per definire la situazione clinica, poiché a tali insiemi hanno contribuito, oltre che alla specifica preparazione, anche esigenze di diversa natura. Voglio dire che questo corpo teorico personale nasce dentro l’individuo stesso che l’ha organizzato, riflettendo i propri modi di sentire e di vivere l’esperienza, colorandola inevitabilmente di quello che è ed è stato e definendo, in questo modo, il suo particolare stile. Intendo riferirmi anche allo stile delle sue difese, per cui il terapeuta fa normalmente uso di quelle difese che, anche se elaborate nella propria analisi personale, rimangono un tratto non conflittuale della persona. Introduco in questo caso un concetto, che riprenderò più avanti in maniera estesa, che riguarda l’idea di Sandler sulla persistenza delle strutture. Così l’autore la definisce:

“Il concetto di persistenza implica anche che l’organizzazione di precedenti soluzioni, vale a dire la ‘struttura’, come noi la concepiamo, persistono anche se vengono continuamente create nuove strutture di crescente complessità.” (J. Sandler, 1967)

Nel tentativo di dimostrare come si formi questo personale costrutto teorico farò uso di un caso cli – nico, tratto dal mio lavoro, che mi sembra particolarmente adatto allo scopo, sebbene mi possa esse- re mosso l’appunto, che in parte condivido, che l’uso che si può fare di resoconti più o meno detta – gliati di sedute è volto ad inferire ciò che lo stesso autore vuole dimostrare. Una specie di effetto pigmalione a cui non rinuncio a sottrarmi, in quanto credo che rappresenti il naturale limite di una materia che ha nel rapporto unico ed esclusivo dell’analista con il proprio paziente la sola possibi – lità di osservazione e descrizione. Ciò oltretutto mi conforta nell’ipotesi di partenza, che ciò che viene riferito dal terapeuta ha inevitabilmente a che fare con tutto l’insieme delle sue esperienze e del modo in cui le ha esperite, sia quelle che lo legano alla propria formazione professionale, sia alle vicende che ora riflettono in modo tipico e originale il personale modo di sentire e di vivere la propria esperienza e quella degli altri.

Caso clinico. Si tratta di un ragazzo di 27 anni che all’epoca seguivo da alcuni mesi e che si era ri – volto a me per un sentimento costante di inadeguatezza che gli impediva di coltivare e di mantene – re fluide relazioni con gli altri. Mi descrive la preoccupante e preoccupata situazione di ritiro in cui si costringe. Non frequenta gli abituali ritrovi dei suoi coetanei e quando gli capita se ne sta in dis – parte senza intervenire, muto. L’unica nota di colore sembra essere presente nel suo lavoro che fa con perizia e riconosciuta abilità. Al lavoro dedica la gran parte e anche più del suo tempo, attar – dandosi il più possibile, facendo numerose ore straordinarie, tra l’altro retribuite in nero e sottoco – sto. Il suo lavoro consiste nell’installazione, manutenzione e riparazione di bruciatori per riscalda – mento. Aveva fatto le scuole professionali ed aveva scelto un indirizzo elettrotecnico, tuttavia dopo alterne vicende era approdato nell’azienda in cui lavora ed aveva imparato da zero il mestiere, interessandosi e curando personalmente l’aggiornamento, tanto da diventare in breve una persona esperta nel settore e l’uomo di fiducia del titolare della ditta che gli affidava, in genere, i compiti più delicati e le situazioni più complesse. Quando mi lascia il suo numero di telefono mi dichiara quello dell’ufficio della ditta aggiungendo “tanto sono più qua che a casa”. A casa ci sta per intero solo la domenica e con grande sofferenza, senza mai muoversi, sostenendo che in genere non va da nessu – na parte perché “per come si ritrova” non servirebbe a niente e acuirebbe solo il suo disagio, il suo sentire l’incapacità di stare con gli altri.

Qualche tempo prima di conoscerlo aveva avuto un incidente stradale, investendo un’anziana signora che incautamente gli aveva attraversato la strada e che era successivamente morta per le lesioni riportate. Preso dalla paura dell’accaduto aveva proseguito la sua corsa, senza prestare alla malcapitata i necessari soccorsi. Si era rifugiato in casa e nell’agitazione che lo aveva preso aveva messo al corrente dell’accaduto il fratello maggiore, il quale dopo essere tornato sul posto aveva provveduto alla denuncia presso il comando dei vigili. Tra l’altro – mi dice – pare che fosse stato rilevato il numero di targa della sua auto, per cui si sarebbe in ogni caso risaliti a lui. Ritenuto colpevole di omissione di soccorso era stato condannato dal Pretore al ritiro della patente di guida per due anni. Al di là del di per sé brutto episodio, mi colpiva nella descrizione che il paziente mi faceva dell’accaduto l’assenza di un pur tenue sentimento di colpa, che era invece sostituita dal ri – sentimento e dalla rivendicazione per essere stato privato della patente. Come conseguenza, nel suo lavoro, il titolare della ditta aveva dovuto affiancargli, per le uscite e le richieste di intervento all’esterno, una seconda persona che fungeva e ha continuato a fargli da autista il più delle volte, poiché spesso senza altri compiti da eseguire.

Tale situazione di dipendenza, ma io definirei meglio essere di tutela, era per lui fonte continua di imbarazzo e irritazione. Voglio comunque sottolineare come all’interno della ditta in cui operava, il lavoro del mio paziente era considerato prezioso e importante, tanto da indurre il titolare a stornare un operaio dalle sue normali mansioni per affiancarlo a lui.

Nella precedente descrizione ho introdotto la figura del fratello, che è estremamente importante nell’economia psichica del mio paziente. E’ maggiore di lui di quindici anni e alla morte del padre, avvenuta quando il mio cliente aveva cinque anni, ne ha ereditato le funzioni di guida, occupandosi del fratello come padre ausiliario. Anche all’epoca ne svolgeva il ruolo, vivendo il mio paziente in casa con lui, nella casa paterna, assieme all’anziana madre e alla famiglia che nel frattempo il fratello aveva costituito, composta dalla moglie e dal figlio, che quella volta aveva diciassette anni. Del padre A (così lo chiamerò) non conserva molti ricordi, non conosce i motivi della morte, me lo presenta come una figura sbiadita, dedita all’alcool e litigiosa. Mi descrive un episodio della sua infanzia, riferito da sua madre, quando, in casa, andava a disattivare il flusso dell’ossigeno dalla bombola alla quale era mantenuto il padre per la respirazione. Sua madre mi viene descritta come una persona anziana e piena d’acciacchi, la quale dopo la morte del marito s’era tenacemente attaccata ad A, mantenendo con lui uno stretto legame intrusivo mai risolto nel tempo.

All’epoca il mio paziente andava a dormire nello stesso letto con sua madre, abitudine che era rimasta anche al momento della consultazione. Nella configurazione familiare di A la madre è la persona a cui lui riesce a confidare ogni cosa, rappresenta l’unico suo sostegno, mentre il fratello è la figura odiata che gli ha impedito di crescere e di acquisire una sufficiente autonomia. Non riesce – sostiene A – a stabilire col fratello un contatto, a parlare di ogni cosa. Lui è troppo autoritario e si accorge solo del suo punto di vista. Il mio paziente è dell’idea che la sua incapacità derivi dalla imbavagliata rela – zione con il fratello, che si è sostituito a lui in ogni piccola cosa, compresa quella del ritiro dei cer – tificati personali quando gliene servivano, senza permettere a lui la maturazione della necessaria esperienza, relegandolo in una posizione passiva e di subordine.

Che cosa si può stabilire da queste prime note? Che idea mi faccio e perché decido di seguirlo. La mia prima impressione è che si tratta di una persona che vada tenuta “pompata” sostenuta laddove induce un senso di penosa povertà e solitudine. Agisco questa sensazione anticipando i tempi della sua presa in carico e cominciando a seguirlo poche settimane prima di iniziare le vacanze estive. Mi sorprende come, solo dopo qualche settimana, parlando dell’interruzione per le vacanze ormai im – minenti abbia una reazione estremamente violenta, dicendo con voce piena di rabbia che finalmente si liberava di me, che ne era stufo e che costituivo per lui un incubo.

A questo proposito è utile riferirci a ciò che sostiene O. Kernberg:

“Forse la caratteristica più sorprendente delle manifestazioni di traslazione in pazienti con una or – ganizzazione della personalità caso al limite è l’attivazione prematura nella traslazione di relazioni oggettuali cariche di conflitti, risalenti alla primissima infanzia, nel contesto di stati dell’Io disso – ciati l’uno dall’altro.” (O. Kernberg, 1975)

La tonalità delle sedute di quelle prime settimane è altrettanto importante da rilevare. Si tratta di quelle sedute che sembrano non finire mai, a qualche parola spiaccicata a stento segue un periodo di lungo e denso silenzio. La preoccupazione è quella di mostrasi inadeguato e non all’altezza del compito presunto. L’argomento che più tocca è quello del proprio lavoro poiché descrivendolo si sente meno esposto e più al sicuro. Tuttavia i silenzi non sono vuoti e ho la sensazione di toccare con mano l’incessante lavorio interno che il paziente compie in quelle pause. Mi adeguo a quei lunghi silenzi in quanto quando chiedo ad A di rendere espliciti i propri pensieri egli se ne difende dichiarandoli insignificanti e sempre riferiti alla banalità del suo vivere quotidiano. Eppure la densità che respiro in quelle sedute è stupefacente e allo stesso tempo conturbante. I miei pensieri si susseguono, si incrociano e sono sempre riferiti a lui, non divagano attraverso tangenti personali. Al termine delle sedute mi sento spremuto e stanco. Sono inoltre frequenti le assenze, di cui non mi avvisa, lasciandomi addosso un senso di incertezza riguardo alla possibilità di rivederlo la volta successiva e quindi ancora, per poi ripresentarsi quando questa sensazione si fa più acuta e mi indurrebbe a fare qualcosa. Comprendo che per lui sia necessario agire il bisogno di prendere le distanze ogniqualvolta si sente preso entro una relazione estremamente partecipata, essendo io diventato per A l’unica figura con cui è aperto un contatto, seppure ‘ab initio’, fra il suo mondo interno e la realtà esterna.

In questo senso non mi spaventa più di tanto la descrizione che mi fa successivamente di un suo tentato suicidio, compiuto circa quattro anni prima e legato all’abbandono della sua ragazza, tentativo compiuto con minuziosa cura nel solaio della sua casa avvolgendosi una corda attorno al collo e rinunciando all’ultimo momento perché lui – dice – “non ha neppure il coraggio” di agire quel tentativo. Sono l’unico – mi dice e mi rendo conto di quanto importante sia per lui – a saperlo. Al di là del valore di minaccia (come può fare altrimenti) A vuole dirmi che ha stabilito con me un investimento importantissimo ed indispensabile non solo per il suo funzionamento psichico, ma per la sua stessa sussistenza.

C’è da chiedersi, a questo punto, quali siano i tasti che il paziente tocca in me, che cosa provoca in me il bisogno di rimanere in quella situazione per cercare di alleviarla.

Commento. Provo a rispondere all’interrogativo sopra riportato attraverso la comprensione che a questo punto ho di questa persona. Che cosa avviene fra me e il mio paziente? Che cosa passa attraverso e al di là della descrizione che A mi fa di se stesso? Da una parte sento la richiesta di una persona che stimola le mia capacità di offrirgli un rifugio sicuro e un rassicurante rifornimento ai suoi bisogni.

Dall’altra il paziente mi trasmette la diffidenza che ha nei riguardi di una persona calda e accogliente, dalla quale deve allontanarsi per il timore di una penosa dipendenza, che in lui si configura come un insopportabile depauperamento, la tragica contropartita dei suoi desideri di contatto. In questo senso mi diventano chiare le sue assenze e il denso silenzio delle sue sedute.

Controtransferalmente, per le cose che A ritiene io abbia e che gli possa fornire a piene mani, mi sento come una riserva sulla quale viene bandita la caccia per suo uso ed esclusivo consumo. Avverto il risucchio delle sedute, mi sento spolpato, divorato di tutte le mie risorse. E’ convincente l’idea che A mi consideri come una sorta di osso tutto per lui, da non spartire con nessun altro, ed è per lui insopportabile il pensiero che io possa avere una vita privata indipendente da lui.

L’incostanza della figura di riferimento induce il mio paziente a ghermirla mediante il bisogno di controllo. Il non venire agli appuntamenti ha lo scopo di mantenermi in quello stato in cui per essere sicuro dell’oggetto A deve averne il controllo. Io, come figura di riferimento in terapia, esisto solo nel mio studio, per lui rappresento una sorta di oggetto-Sé funzionale che decide come e quando usare. Come sostiene Kernberg nell’opera già citata:

“Gli ‘eccessivi bisogni di dipendenza’ di questi pazienti riflettono la loro incapacità di dipendere da chicchessia, causata dall’odio e dalla totale sfiducia che nutrono verso sé stessi e verso le immagini oggettuali interiorizzate del passato che vengono riattivate nella traslazione.” (O. Kernberg, 1975)

E’ del tutto assente l’idea che un altro possa avere una propria esistenza autonoma e separata, che possa esprimere esigenze e desideri diversi dai suoi. Nel suo mondo interno egli ha a che fare con oggetti confusi con lui, non separati, che riflettono esclusivamente i suoi propri bisogni. Non c’è assolutamente spazio per l’altro e per ogni altra venatura di sentimenti.

Da un punto di vista descrittivo il funzionamento psichico di A può venire inteso come dovuto ad una inibizione evolutiva legata al periodo pre-edipico e, se si hanno presenti le fasi evolutive tipiche della nascita psicologica dell’individuo di M. Mahler, corrisponderebbe ad un arresto dello sviluppo alla fase simbiotica che, secondo l’autrice, coinvolge il bambino dopo il 1° mese e fino al 4° – 5° mese.

Tuttavia, nel mio paziente, il bisogno di controllo confusivo che gli impone di presidiare da vicino e costantemente l’oggetto si scontra sia con la rinuncia all’autonomia, poiché per funzionare ha bisogno dell’oggetto confusivo da cui dipendere per ogni approvvigionamento, sia con l’inevitabile fluire del tempo, ossia col fatto che l’oggetto confusivo non è per sempre a disposizione e che ha un termine. Mi diventa chiaro il tentativo del mio paziente di operare una sostituzione di oggetto, con tutte le caratteristiche e gli attributi dell’oggetto confusivo primario.

Su questo suo bisogno, accettandone inizialmente il ruolo, posso agire la funzione di oggetto sosti -tutivo, conducendo il mio paziente a ridurre poco a poco le sue pretese verso l’oggetto in favore di una dipendenza più matura nei riguardi dello stesso, che non sacrifichi il suo bisogno di autonomia e che per essa non richieda pesanti contropartite. A Sandler si deve l’elaborazione del concetto di “relazione di ruolo”. Egli così la definisce:

“Nel transfert, in molti modi sottili, il paziente tenta di spingere l’analista a comportarsi in un modo particolare e inconsciamente esamina la percezione della relazione dell’analista adattandovisi poi.”

Più avanti l’autore prosegue dicendo:

“Certamente dalla parte del paziente possiamo vedere emergere un’intera varietà di relazioni di ruolo molto specifiche. Ciò che voglio sottolineare è che la relazione di ruolo del paziente in analisi consiste, in ogni momento particolare, di un ruolo nel quale egli impone se stesso, e un ruolo complementare nel quale egli pone l’analista in quel momento particolare. Il transfert del paziente rappresenterebbe così un tentativo da parte sua di imporre un’interazione, un’interrelazione (nel senso più largo della parola) fra sé e l’analista.” (J. Sandler, 1976)

L’induzione riflessa. Mi configuro le vicende relazionali di A sulla base della presenza di una ma – dre poco attenta e sensibile alle esigenze del figlio, troppo preoccupata per sé e per ciò che gli suc – cedeva attorno, in un’età in cui si sentiva meno disposta a riflettere i naturali bisogni del bambino. Il padre me lo rappresento come una figura sbiadita e sullo sfondo, incapace di offrirsi al figlio come una figura di compensazione all’assenza psicologica della madre. Il fratello svolge in parte questa funzione, ma con i limiti che gli derivano dalla situazione e oltretutto agendo in maniera massiccia, per collusione con i bisogni del paziente, un ruolo di rifornimento e di soffocante premura per le necessità di A, sdebitatorio per ciò che inconsciamente ritiene a lui sia stato fornito e non dato al fratello minore.

Il risultato è che A aderisce a sua madre in una relazione di vischiosità, l’abbranca senza mollarla per un attimo, in tutti i modi possibili, non se la può lasciare sfuggire, mantiene con essa un rap – porto confusivo di controllo a discapito della sua autonomia e dell’evoluzione di una propria identità.

In che senso colludo con i bisogni del paziente? Mi chiedo questo in quanto ritengo inevitabile e utile un’iniziale collusione con le necessità dei nostri pazienti. Estrapolando nuovamente dall’ar – ticolo di Sandler citato sopra, l’autore riconosce che:

“All’interno dei limiti posti dalla situazione analitica egli (analista) tenderà, a meno che non ne diventi consapevole, a soddisfare il ruolo richiestogli, ad integrarlo nel suo modo di reagire e di mettersi in relazione al paziente. Di solito, naturalmente, egli può cogliere in sé stesso questa contro-risposta, particolarmente se essa sembra essere inappropriata. Tuttavia, egli può diventarne conscio solo attraverso l’osservazione del proprio comportamento, delle sue risposte e dei suoi atteggiamenti, solo dopo che questi sono stati messi in atto.” (J. Sandler, 1976)

I pazienti generalmente si rivolgono a noi con una duplice richiesta. Da un lato il bisogno di soddi – sfacimento espresso attraverso particolari modalità di comportamento e di difesa, che rende possi – bile la relazione transferale, dall’altro il bisogno di superamento delle stesse, poiché si tratta di mo – dalità non più aggiornate, che provocano un senso di inadeguatezza, ed è proprio questa distonicità che rappresenta la molla per cui i pazienti si rivolgono a noi nella nostra qualità di psicoterapeuti e che in un Io sufficientemente strutturato permettono di costituire l’alleanza di lavoro e a impegnarsi in un’attività su di loro che dura nel tempo e che impone non poche fatiche.

Secondo Freud (1913) l’alleanza di lavoro, da lui assimilata al “transfert reale”, è quel rapporto relativamente libero da conflitti che consente al paziente di identificarsi con gli atteggiamenti e le modalità di osservazione del terapeuta. Sullo stesso tono Greenson definisce l’alleanza di lavoro come:

“… quella parte del rapporto con l’analista che permette al paziente di collaborare durante la seduta. Sotto la sua benevola influenza il paziente cerca di comprendere le spiegazioni e le intuizioni dell’analista, riesamina e rielabora le interpretazioni e le ricostruzioni, e ciò lo aiuta a integrare e ad assimilare le prese di coscienza stesse.” (R.R. Greenson, 1967)

Tornando all’interrogativo di prima, offro ad A la possibilità di investirmi secondo i suoi propri bisogni, di aderire in me in maniera vischiosa, di supportarmi mantenendomi in una situazione controllata. A che cosa corrisponde questa mia adesione? Dove va a parare il bisogno del paziente che mi induce a stare nella relazione e ad agire, almeno inizialmente, il ruolo transferale che lui si attende da me?

Per Sandler:

“… l’analista si troverà spesso a rispondere apertamente al paziente in un modo che egli può sentire indicativo solo dei suoi (dell’analista) problemi, delle sue macchie cieche; e l’analista può con successo ricorrere all’auto-analisi per scoprire gli elementi patologici dietro la sua particolare risposta e il suo particolare atteggiamento verso il paziente. Comunque voglio suggerire che molto spesso le risposte irrazionali dell’analista che è guidato dalla sua consapevolezza professionale a riconoscere le sue stesse macchie cieche, possono a volte essere utilmente considerate come una formazione di compromesso fra le sue tendenze professionali e la sua accettazione riflessa del ruolo che il paziente sta cercando di imporgli.” (J. Sandler, 1976)

Ritengo utile fare riferimento al concetto di “Persistenza delle strutture” così come è stato studiato ed elaborato da J. Sandler, secondo il quale “nessuna struttura psicologica va mai persa”. L’autore fa l’ipotesi che alle strutture più antiche si vengano a sovrapporre, durante lo sviluppo, strutture complementari di crescente complessità, con la funzione di controllo e inibizione delle precedenti strutture. Ciò comporta che in particolari condizioni di tensione interna o esterna vi sia la tendenza al reimpiego di modalità normalmente inibite. Secondo me ciò può essere osservato nel processo di controtraslazione e rappresenta quella modalità per cui una parte di noi aderisce all’induzione di ruolo promossa dal paziente, in virtù della capacità di non inibire, almeno inizialmente, le strutture preesistenti alle attuali.

Tornando all’argomento principale, al di là di questa situazione particolare, credo che la novità risieda nel legame che si viene a stabilire fra reciproci bisogni, con una considerazione in più per quanto attiene l’analista, laddove il suo bisogno non sia fine a sé stesso e quindi agito dal medesimo in maniera inconsapevole, ma venga utilizzato per il fine di un’aumentata comprensione ed empatia con le vicende del paziente.

Mi viene da pensare come certe analisi non funzionano, o non procedono in certi casi (ammesso che il terapeuta non sia appannato da consistenti rimozioni o scotomi personali), proprio perché non si stabilisce un’autentica identificazione, non perché l’analista non ne sia in grado o inconsciamente la rifiuti, ma perché vi è da parte sua una scarsa capacità, dettata più che da motivi interni da fattori esperenziale, che lo fanno poco adatto a mettersi in relazione con quel paziente sulla base del ruolo che esso cerca di attualizzare in quel momento con lui, impegnando il terapeuta in un compito che quest’ultimo non riesce a fare proprio. Mentre per il paziente tale modalità rappresenta un’esigenza attuale, per l’analista può costituire una struttura-eco del passato, che convive insieme ad altre strut- ture di risposta al bisogno, che tuttavia ora può venire attivata dalle vicende del paziente, fornendo – gli la sensibilità necessaria per accostarsi al mondo interno di lui per comprenderlo e svelarglielo.

Il concetto di persistenza di Sandler e Joffe è adoperato in senso dinamico e implica che:

“… in ogni evento psicologico e in ogni tentativo di risolvere un problema … la soluzione raggiunta è preceduta da una rapida esplorazione riassuntiva di precedenti soluzioni stabilite nel corso dello sviluppo ontogenetico individuale.” (J. Sandler – W. G. Joffe, 1969)

Conclusioni. A questo punto della descrizione credo di aver fatto uso di un modello teorico che mi è servito per collocare ciò che il paziente mi ha detto entro uno schema definito e comprensibile. Mi pare evidente che l’utilizzo che ne faccio contenga i modelli di riferimento ispirati all’approccio teorico che ha improntato la mia formazione professionale, temprati tuttavia da un modo personale di intenderli e di applicarli. Non ho confezionato una teoria alternativa a quelle a cui solitamente facciamo riferimento e tuttavia è evidente che gli aspetti personali si intrecciano con quelli più pro – priamente tecnici e teorici.

Inevitabilmente i dati clinici non possono venire confusi e vanno interpretati secondo un metro di lettura sufficientemente omogeneo, che stabilisce la natura dello stato psichico del paziente ad un momento dato della sua storia, lo sviluppo cognitivo e affettivo e quindi il grado di maggiore o minore integrazione dell’Io, la capacità di sopportare l’angoscia e le frustrazioni, il livello delle difese e quindi la considerazione più generale sulla struttura psichica del paziente. Le differenze risiedono nel modo personale di accostarsi a quei dati, il ché stabilisce la differente sensibilità che noi stessi abbiamo da un paziente all’altro e che definisce il diverso stile che esiste tra un analista e l’altro. Differenza che è sollecitata oltre che dalla cultura personale anche, in particolare, dai propri percorsi esperenziale.

Non si tratta, quindi, come sostenevo all’inizio e come è sostenuto da alcuni fra gli addetti ai lavori, di formulare una teoria nuova e unica, ma del colorare il corpo teorico a cui facciamo riferimento con le tinte che fanno parte della nostra eredità affettivo-cognitiva e che fanno del nostro lavoro e del nostro intervento qualcosa di particolare e unico. Il quadro di riferimento teorico costituisce l’ordito del quale ci serviamo come chiave di lettura per la comprensione della situazione clinica, la tramatura è ciò che invece ci aggiungiamo noi e che ha inevitabilmente a che fare con la nostra ca – pacità di modulazione rispetto alle sollecitazioni, per lo più inconsce, espresse dal paziente, quando tali richieste hanno lo scopo di rendere attuali, sulla nostra persona, certi desideri che il paziente è indotto ad agire o da cui si difende, al fine di restituirglieli sotto la veste di interpretazioni, quando, dopo aver prestato attenzione alle nostre reazioni controtransferali, riusciamo a rimandare al pazien- te il significato di ciò che cerca di attualizzare nella relazione con noi.

E’ come se si dovesse dipingere un quadro con un soggetto già definito. La tela è uguale per tutti, così come lo è il tema, però i colori usati e l’intensità di essi varia da persona a persona, secondo un modo personale di esprimere e di rappresentare il soggetto. Il fatto che il tema sia il medesimo per – mette di definire da parte di ognuno qual è il soggetto rappresentato, tuttavia la maniera in cui viene svolto il compito riguarda il modo soggettivo di interpretare il tema in questione, che coinvolge, ol – tre alle proprie conoscenze, la capacità di esprimere e rappresentare i propri vissuti emozionali.

Così dire che il paziente ha queste e quest’altre caratteristiche, che ha una struttura di personalità di questo o quel tipo, ecc. ecc., permette di essere d’accordo dell’oggetto di cui si parla, senza tuttavia definire l’approccio, o come dicevo prima la trama, che, a mio modo di vedere, è relativa al grado di sensibilità dell’analista nell’aderire alle rappresentazioni del paziente, mantenendole fintanto che è utile, restituendogli poi l’intero intreccio, vale a dire tutto quello che è accaduto nella relazione “hic et nunc” con lui.

La capacità di modulare il proprio comportamento sulla base di quello del paziente, senza tuttavia perdere di vista lo scopo per cui è utile un simile arrangiamento, il differente grado di adesione all’induzione riflessa in momenti e con pazienti diversi e la capacità empatica di sopportare l’in – tensità di certe emozioni senza sentirsene sopraffatti, ritengo sia una qualità personale che riflette, oltre a un’abilità acquisita, anche e soprattutto i bisogni, i desideri e i sentimenti che formano la storia affettiva e cognitiva di ogni singolo analista.

Riassunto. Con questa relazione ho cercato di dimostrare come lo psicoanalista, nell’ambito del proprio lavoro con i pazienti, si trovi a elaborare una teoria che, se pur non completa e per certi aspetti incoerente, utilizza dei costrutti teorici che si sono venuti ad organizzare nel tempo sia sulla base della propria formazione professionale, ma anche e in particolare su quanto è già depositato in lui e che viene, di volta in volta, attivato nella relazione con il paziente.

Ritengo che sia molto importante per l’analista accorgersi e recuperare quelle tracce, in quanto lo mettono nella condizione di capire meglio quanto sta accadendo ad paziente e così espandere la propria disposizione all’empatia (quando sia in grado di mantenere l’identificazione con quegli aspetti di sé). Kernberg echeggia qualcosa di simile quando dice:

“Io credo che interessarsi al paziente comporti una dedizione a lui, e questa dedizione rende l’ana – lista vulnerabile alla controtraslazione in senso lato.” (O. Kernberg, 1988)

In un certo qual modo scrivere la storia del paziente equivale per l’analista a riscrivere una parte della propria autobiografia, sia pure se in edizione riveduta e aggiornata.

Bibliografia

Freud S. 1913 “Inizio del trattamento.” In: Tecnica della psicoanalisi.

Ed. Boringhieri, Torino, 1976

Greenson R.R. 1967 “Rassegna dei concetti fondamentali.” In: Tecnica e pratica psicoanalitica.

Ed. G. Feltrinelli, Milano, 1974

Kernberg O. 1975 “I principi generali del trattamento.” In: Sindromi marginali e narcisismo patologico.

Ed. Boringhieri, Torino, 1978

  1. Proiezione e identificazione proiettiva: aspetti evolutivi e clinici.”

In: Proiezione, Identificazione, Identificazione proiettiva (a cura di J. Sandler).

Ed. Boringhieri, Torino, 1988

Mahler M. e 1975 La nascita psicologica del bambino.

altri Ed. Boringhieri. Torino, 1978

Sandler J. e 1967 “Persistenza nelle funzioni e nello sviluppo psicologico.

Joffe W. G. In: La ricerca in psicoanalisi. Vol. II

Ed. Boringhieri, Torino, 1981

  1. Verso un nuovo modello psicoanalitico.”

Ibidem

Sandler J. 1976 “Controtransfert e rispondenza di ruolo.

International review of Psycho-Analysis

  1. Alcune riflessioni sul rapporto fra concetti teorici e pratica clinica.”

Ibidem

Sandler J. e 1984 “La seconda censura, il modello ‘3 box’ e alcune implicazioni tecniche.

Sandler A.M. International Review of Psycho-Analysis

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