“Se cerchiamo di isolare un fatto singolo, ci accorgiamo di solito che è agganciato con tutte le altre cose dell’universo”
John Muir
I presupposti teorici della tecnica terapeutica proposta da Dalle Grave si basano sul ruolo dei pensieri disfunzionali nel mantenimento del disturbo del comportamento [alimentare]. Un pensiero è disfunzionale in quanto non consente che si instauri una modalità di comportamento funzionale, vale a dire corretta nella sua esecuzione e finalizzata entro degli standard di normalità. All’interno di questo quadro teorico è sufficiente il distacco dai pensieri disfunzionali affinché avvenga la remissione del disturbo del comportamento [alimentare].
Le strategie proposte derivano dalle teorie cognitivo-comportamentali basate sul principio dell’apprendimento. Uno dei classici esperimenti di questa corrente di pensiero è quello del ratto di laboratorio che per ottenere una porzione di cibo deve imparare ad abbassare una leva che si trova dentro la sua gabbia, fino ad apprendere quella particolare abilità ed a renderla funzionale all’ambiente in cui vive.
Nella psicologia psicoanalitica ciò che gli psicologi del comportamento teorizzano come l’apprendimento di una funzione, viene invece considerato all’interno di un lento processo di individuazione, che nelle varie fasi, utilizzando le risorse di cui dispone, attiva le capacità cognitive del bambino. L’ambiente affettivo e le esperienze emotive che il bambino andrà a fare sono di fondamentale importanza nel guidare questo processo di acquisizione ed insieme andranno a formare quella che è la rappresentazione di Sé del bambino, una specie di carta d’identità che raffigura il personale vissuto di ognuno e la sua personale dotazione, espressione di quelle funzioni che sono di fondamentale importanza nello stabilire i modi per raggiungere il migliore adattamento possibile al proprio ambiente di vita.
La terapia cognitivo-comportamentale di Dalle Grave si distingue dalle altre tecniche per il fatto di essere transdiagnostica, vale a dire che il suo programma è applicabile a tutti i disturbi dell’alimentazione, con l’aggiunta di particolari moduli indirizzati verso un sottogruppo di persone che presentano delle ulteriori patologie che si innestano nel disturbo centrale dell’alimentazione.
Nella descrizione del metodo la sensazione che se ne ricava è che sia più importante la tecnica fondata sulle precise prescrizioni che vengono proposte al paziente, rispetto al mondo soggettivo del soggetto-paziente, che per definizione è disfunzionale e quindi malato e dal quale il paziente si deve distanziare, senza nessun riguardo al modo in cui esso si è costituito e a quale ne sia la funzione nei termini di un adattamento alla realtà soggettiva della persona.
Si determina una grande differenza teorica (inevitabilmente anche tecnica) rispetto alla psicologia psicoanalitica, che considera il mondo mentale del soggetto come qualcosa che si è formato per la necessità primaria della persona di rispondere ai compiti evolutivi dell’esistenza cercando di stabilire il miglior adattamento possibile all’ambiente in cui vive, tenendo conto delle risorse di cui dispone e delle esperienze che ne costellano il cammino. In questo senso anche il disturbo psichico rappresenta il migliore adattamento possibile e una risposta dell’individuo al suo modo di percepire il proprio ambiente, con i dati di cui dispone e la rappresentazione di Sé che ha saputo sviluppare. Anche il disturbo dell’alimentazione va inteso come una risposta adattiva della persona agli stimoli, sia esterni che interni, che fanno parte della sua peculiare realtà. Limitandoci all’aspetto descrittivo il disturbo alimentare viene considerato come l’incapacità di regolare l’apporto calorico alla propria persona, per cui l’inevitabile strategia consisterebbe nella regolazione di questi flussi. Se proviamo ad allontanarci da queste considerazioni, non si può fare a meno di osservare che mangiare ha una connotazione emotiva ed affettiva che ne determina la particolare resistenza a modificare il comportamento alimentare. Mangiare, senza riguardo al quanto, ha per certi pazienti (non solo) una funzione regolatrice di forti tensioni psichiche, per cui la persona vi fa ricorso ogniqualvolta teme di venire soprafatta da stimoli tensivi ritenuti intollerabili che rischiano di far saltare un precario equilibrio, lasciandola esposta ad un disgregante conflitto psichico.
L’osservazione psicoanalitica dei disturbi dell’alimentazione porta a considerare l’importanza che per questi pazienti riveste il controllo delle proprie emozioni, con delle differenze significative che distinguono l’anoressia dalla bulimia. Nel caso di quest’ultima il cibo ha preso il posto di ogni altra risposta di regolazione degli stati di tensione e di bisogno, per cui questi pazienti sono cresciuti senza la necessaria consapevolezza di essi e con la convinzione dell’inapropriatezza degli stessi. I sentimenti di ansia o la tensione derivante da un qualche conflitto viene percepita e trasformata in “bisogno di mangiare”, che porta questi pazienti a diffidare dei propri sentimenti e delle proprie esperienze. Cosicché il cibo assume un valore emotivo predominante e sostitutivo dei bisogni di sicurezza.
Nell’anoressia il controllo delle emozioni deriva dalla necessità di stabilire un dominio su di esse come modo per acquisire un senso di identità e di autonomia. Considerando che l’adolescenza si può condensare nella conquista di una propria identità autonoma e separata, il deficit strutturale di questi pazienti si può valutare nel contesto di queste esperienze e nella loro disperata lotta verso l’individuazione.
Ciò che accomuna queste due forme patologiche è l’incapacità di distinguere la fame e di riconoscerla da altri stati fisici o di eccitazione. In entrambi i casi ciò deriva dalle esperienze connesse con la funzione alimentare, in quanto mediatrice dei segnali affettivi provenienti dal proprio ambiente, in tutti e due i casi il bambino non ha ricevuto, per ragioni diverse, conferma ai propri segnali affettivi e alle tensioni collegate ai propri bisogni e agli stati di eccitazione. Il mondo interno del bambino non ha ricevuto risposte congrue e pertanto non ha potuto sviluppare una rappresentazione di Sé congruente e consapevole delle proprie funzioni, con esigenze e impulsi distinti da quelli degli altri. Queste esperienze stanno alla base delle deficienze che si riscontrano nella rappresentazione di Sé di questi pazienti, che sono privi di un’affermata identità e della capacità di distinguere fra sé e non sé.
Incidere sulle abitudini e sui comportamenti alimentari dei propri pazienti, senza nessun riguardo al significato emozionale che quegli stessi comportamenti hanno nell’equilibrio psichico ed omeostatico (nel senso dell’adattamento) di un individuo, significa il più delle volte fare un buco nell’acqua, o al massimo spostare le tensioni da un’area ad un’altra modificando la struttura dei sintomi.
Sostenendo che è il loro modo di pensare ad essere sbagliato, la terapia cognitivo-comportamentale non fa altro che ripristinare lo stesso processo patologico nel quale questi pazienti sono imbrigliati. Li si stimola a prendere le distanze da quello che pensano (e dalle emozioni inevitabilmente coinvolte) rafforzando in queste persone la diffidenza verso i propri pensieri, le proprie emozioni e le esperienze che ne stanno alla base, al punto che vengono ulteriormente private di una piattaforma identificatoria sulla quale possano far leva per sostenere una rappresentazione individuata del Sé.
Nella tecnica terapeutica sostenuta da Dalle Grave il lavoro è basato sulla modificazione dello schema di autovalutazione disfunzionale attraverso il quale il paziente attribuisce un’eccessiva importanza al peso, alle forme corporee e al controllo dell’alimentazione, assegnando a questo schema disfunzionale il ruolo di meccanismo centrale nel mantenimento dei disturbi [dell’alimentazione]. Ciò che colpisce di questi presupposti è il ruolo che viene assegnato ai pensieri razionali, come se possedessero delle qualità oggettive intrinseche e per certi versi misurabili, come se non fossero soggetti a quelle distorsioni che vengono messe in atto dall’apparato psichico per difendersi dalla consapevolezza conscia di certi pensieri, alterandone il significato. Ciò che succede dentro la persona non esiste, viene così negata l’esistenza di un apparato psichico con la funzione di trovare il miglior adattamento possibile al proprio ambiente, anche quando questa regolazione sia descrittivamente disfunzionale. Ad un pensiero considerato disfunzionale se ne può sostituire uno più funzionale rispetto ai sintomi disfunzionali.
Dalle Grave da un grosso peso alla predisposizione genetica come concausa dei disturbi dell’alimentazione (in nessun caso dimostrata dai dati riportati) e ai fattori esterni. Sui processi causali individuali coinvolti viene da lui sostenuto che non se ne sa ancora nulla, trascurando il fatto che è proprio di questi fattori che la terapia cognitivo-comportamentale (per i suoi limiti teorici) non riesce a coglierne il valore per l’individuo. Descrivendo lo schema di autovalutazione disfunzionale la maggior enfasi viene posta sui fattori di mantenimento del disturbo, ma è uno schema che non riesce a dare un’idea dinamica del processo che è coinvolto, fornendo un elenco statico dei sintomi osservabili, come se non avessero alcuna attinenza con la persona che li mette in atto, prodotti estrapolabili dal contesto interpersonale e soggettivo che li ha provocati. I fattori di rischio sono poi così generici e impalpabili come l’essere di sesso femminile, l’adolescenza o la prima età adulta, persino il fatto di vivere nella società occidentale. Fra i fattori precipitanti vengono elencati tutta una serie di eventi che possono avere un indubbio significato traumatico, in quanto all’origine di stati di tensione emotiva, ma che non necessariamente producono una risposta disadattiva. Di per sé gli episodi potenzialmente traumatici, eventi esterni, diventano tali quando la persona non è in grado di produrre un adattamento interno efficace agli stimoli che la investono, risposta che può essere raggiunta anche attraverso la produzione di sintomi psichici con la funzione di recuperare un adattamento accettabile e che hanno il compito di preservare la persona dalla disgregazione del proprio campo psichico. La teoria cognitivo-comportamentale [dei disturbi dell’alimentazione] trascura di considerare il valore di adattamento che anche i sintomi di qualsiasi genere possono avere per l’equilibrio psichico, in questo modo equiparandoli a prodotti di scarto che la persona produce a causa di una organizzazione disfunzionale dei propri pensieri, senza dare nessun risalto all’attività dell’apparato psichico che precede lo sviluppo dei sintomi, di cui essi rappresentano l’espressione ultima con la funzione di arginare la minaccia di uno squilibrio traumatico della propria organizzazione psichica. Questo modo di procedere è confermato quando l’autore passa in rassegna i fattori di mantenimento specifici, in particolare quando afferma che le preoccupazioni per l’alimentazione, il peso e le forme corporee mantengono attivato lo schema di autovalutazione disfunzionale, che a sua volta produce preoccupazioni su alimentazione, peso e forme corporee. E’ il cane che si morde la coda, un circolo vizioso in cui i pensieri disfunzionali mantengono lo schema di autovalutazione disfunzionale che a sua volta produce degli altri pensieri disfunzionali. In questo modo si sostiene che è proprio il tipo di pensiero ad essere all’origine del disturbo e l’intervento è indirizzato a modificarne il processo. Perché allora non chiedersi che cosa è avvenuto nell’apparato psichico della persona per produrre proprio quel particolare pensiero e non un altro e che cos’è che rende quel pensiero così resistente alla più piccola revisione?
Vi è nell’autore il barlume che i pensieri disfunzionali siano il risultato di un processo psichico interno, quando sostiene che per alcuni adolescenti il dimagramento, con la conseguente assunzione di caratteristiche fisiche e psicologiche prepuberi, può costituire un nido sicuro che protegge dalle sfide ambientali dell’adolescenza. Il dimagramento è solo l’ultimo anello di una catena che parte dalle difficoltà di affrontare l’adolescenza e dal complesso dei conflitti che vengono attivati durante questa fase della vita. Il valore clinico delle emozioni viene da un lato riconosciuto e dall’altro negato in quanto legato ad un processo disfunzionale che ha portato a distorcere la forma dei pensieri.
I processi di formazione del pensiero, che da questi autori vengono considerati prodotti automatici e indipendenti, sono il risultato di un’interazione dinamica di fattori predisponenti, temperamentali ed esperenziali che concorrono alla formazione dell’apparato psichico, il quale ha il compito di guidare l’adattamento dell’individuo all’ambiente in cui vive, stabilendo sulla base delle risorse disponibili e delle condizioni in cui si trova ad operare quello che considera il più confacente per sé.
Quando Dalle Grave passa a considerare i fattori di mantenimento aggiuntivi, li inserisce nello schema di autovalutazione disfunzionale come se riguardassero un’appendice impropria, un’aggiunta alla precedente tabella che dimostra come sia assente l’interazione dinamica dei fattori eziologici in un quadro complessivo della persona, in cui il perfezionismo, la bassa autostima, l’intolleranza alle emozioni e i problemi interpersonali si connettono ai disturbi alimentari e in un certo senso li forzano nel tentativo di cercare una diversa soluzione (seppure patologica) ai conflitti che hanno condotto la persona verso il disturbo alimentare. Qui si vede meglio come i sintomi vadano considerati dei tentativi di soluzione rispetto ad una situazione che è divenuta distonica. Quando la soluzione precedente non è più in grado di essere adattiva, il nuovo conflitto impone che venga trovata una diversa soluzione. Può trattarsi di un adattamento soddisfacente, come pure di una soluzione patologica che comunque cerca di imporsi e di sostituirsi a quella precedente, con l’intento di ristabilire un accettabile sentimento di sicurezza.
Nell’esporre i principi generali del trattamento l’autore sottolinea due importanti concetti. Il primo è la relazione terapeutica di fiducia, assimilabile in tutto e per tutto al transfert positivo della psicologia psicoanalitica, il secondo riguarda la valutazione delle motivazioni al trattamento e le resistenze al cambiamento. La resistenza al trattamento non viene affrontata col significato che può avere per il paziente di un conflitto che investe anche una parte che si sente minacciata da qualsiasi modificazione della propria omeostasi. Nella tecnica proposta da Dalle Grave il trattamento è necessariamente finalizzato al cambiamento di certi pensieri disfunzionali, prima ancora che alla loro comprensione, facendo intravedere che se non si realizza nessuna modificazione ciò sia dovuto alla cattiva volontà del paziente che non vuole collaborare e per il quale viene proposto un trattamento di gestione della cronicità. Ancora una volta non vengono considerate le resistenze interne al cambiamento, ciò che dentro al paziente si oppone a qualsiasi ristrutturazione del proprio mondo psichico e la sua necessità di mantenere inalterato uno stato interno di equilibrio, per quanto disfunzionale.
Il voler trascurare il mondo interno dei pazienti, le motivazioni inconsce dei loro comportamenti, rappresenta il limite invalicabile delle teorie cognitivo-comportamentali. In esse viene posta particolare enfasi all’Io conscio e la terapia si basa su un atteggiamento di razionale consapevolezza del paziente che decide di modificare un comportamento disfunzionale [alimentare], indipenden – temente da qualsiasi altra influenza, cercando di imbrigliare il proprio apparato psichico con un atteggiamento di consapevole distacco da esso. Tutto questo è sostenuto dal terapeuta che assume il ruolo di chi decide cosa sia bene e cosa non lo è per il paziente e imponendosi su di lui tende a rafforzare le sue difese psichiche, con un atteggiamento superegoico di condanna e di svalutazione del suo modo di funzionare. I sintomi vengono considerati alla stregua di prodotti estranei ed indesiderati, che possono essere vinti con un attivo atteggiamento di controllo e di scissione da essi. L’analisi di sé a cui è chiamata una persona sottoposta a questa terapia sembra incredibilmente oggettiva, basata sulla convinzione che un individuo possegga una mappa di sé precisa e non soggetta a distorsioni. Ciò che provoca queste alterazioni sono dei pensieri incidentali che vanno corretti, tutto il resto non conta, al paziente è chiesto di staccarsene e ragionevolmente sostituire a questi pensieri degli altri più “normali”.
L’intera strategia di Dalle Grave è indirizzata tout-court alla lotta nei riguardi del cibo. Gli eventi mentali rappresentano ciò che è disfunzionale, vanno scissi dal soggetto e su questi il paziente deve acquisire un dominio basato sull’assunto che quello che fino ad allora ha fatto o pensato [attorno al cibo] non va bene ed è malato, è il suo modo di pensare, sono gli errori del suo processo di pensiero che sono all’origine del disturbo [alimentare]. Le emozioni stesse del paziente sono disfunzionali e al loro posto deve sostituirsi uno stato emotivo “meccanico”, stabilito come ottimale dall’equipé terapeutica. L’autore si basa sul principio che gli stati emotivi siano determinati in maniera esclusiva dalla situazione che li provoca, ne sono l’effetto automatico e astorico capace di attivare lo schema mentale disfunzionale. Inevitabile corollario è il principio per cui deve essere cambiato lo schema mentale disfunzionale con uno più adeguato.
Se è vero affermare che è la situazione ad attivare la risposta emotiva specifica, si deve anche considerare come le emozioni derivano la loro valenza affettiva da tutto ciò che ad esse si accompagna, comprese tutte le distorsioni a cui sono soggette ad opera dei meccanismi di difesa e dalle elaborazioni messe in atto dall’apparato psichico per renderle congruenti con la propria rappresentazione. Se una persona ha di sé l’idea di essere capace di arginare la paura di un pericolo reale, di fronte ad una minaccia incombente può reagire con una formazione reattiva che alla paura sostituisce un atteggiamento disinvolto o sfrontato, coerente con la rappresentazione di Sé dalla quale ottiene sicurezza.
Nelle strategie terapeutiche considerate da Dalle Grave anche le emozioni sono disfunzionali quando si associano ai pensieri disfunzionali. Nelle raccomandazioni di quando compilare il diario emotivo si legge che esso va compilato quando:
- si attua un comportamento disfunzionale (abbuffarsi, ecc.)
- si prova una sensazione corporea negativa (sentirsi grassi, ecc.)
- quando si sperimenta un’emozione negativa (tristezza, rabbia, ecc)
- quando si hanno pensieri automatici negativi o preoccupazioni o si effettuano degli errori di ragionamento.
Si ricava la sensazione che il diario emotivo venga compilato con l’intento di convincere il paziente a considerare inadeguato il legame che esiste fra le emozioni e i cosiddetti comportamenti disfunzionali. In quest’ottica sono i pensieri ed i comportamenti disfunzionali che provocano le emozioni negative, per cui intervenendo sui pensieri le emozioni possono essere ingannate.
Nella psicologia psicoanalitica la prospettiva cambia radicalmente. Dall’inizio dell’esistenza il bambino ricerca uno stato di benessere e di sicurezza che si associa ad esperienze di soddisfa – cimento dei propri bisogni e che da lui viene percepito come uno stato affettivo di accudimento e di accettazione della propria persona. Se queste cure sono favorevoli costituiscono la base di partenza per tutte le acquisizioni ulteriori, comprese quelle logico-formali e lo sviluppo di una personalità individuata, altrimenti è l’intero processo di crescita a venirne compromesso. Nel proseguo dell’esperienza è continua la ricerca di uno stato affettivo sufficientemente positivo ad essere alla base di una rappresentazione integrata ed armonica di sé. La capacità di mantenere con le emozioni un dialogo di significato dipende dalla rappresentazione del Sé che si è potuta formare e dal clima affettivo che ne ha costituito la premessa. Se si è sviluppato un sano sentimento di sicurezza, le emozioni di qualsiasi natura possono essere vissute limitando il ricorso ai camuffamenti e agli autoinganni di cui l’apparato psichico si serve per difendersi dalla consapevolezza conscia di esse, specie quando la minaccia è rappresentata dalla perdita del legame con i propri sentimenti di benessere e di sicurezza e dalla conseguente destabilizzazione del proprio campo psichico.
Distinguendo due livelli di significato, il proposizionale e l’implicazionale, la terapia cognitivo-
comportamentale riconosce allo schema proposizionale, che rappresenta il livello razionale del significato, la capacità di avere il controllo obiettivo e di determinare gli eventi della realtà, altrimenti distorti dallo schema implicazionale, che rappresenta la conoscenza emotiva del significato. In questo senso le emozioni vengono definite eventi avversi che vanno rimossi e al loro posto devono essere creati dei modelli schematici dell’esperienza alternativi. Viene qui ribadita la necessità di separare gli eventi dalle emozioni a cui si associano, come se le emozioni costituissero un’appendice dell’esperienza con degli effetti in certi casi indesiderati, che distorcono la conoscenza reale ed obiettiva delle cose. Sostenere tutto questo significa avere una grande confusione teorica (conseguentemente anche clinica) poiché non possono essere le emozioni a distorcere la conoscenza reale ed obiettiva delle cose, semmai è l’apparato psichico attraverso gli strumenti che possiede a mettere in atto questo processo di difesa dalle emozioni, quando queste non siano tollerabili alla consapevolezza conscia del soggetto e rischiano di produrre un conflitto a cui la persona non è in grado di fare fronte. La distorsione ha lo scopo di ristabilire un livello accettabile nei propri sentimenti di stima e di sicurezza, facendo ricorso a varie manovre che coinvolgono particolari meccanismi di difesa e alterazioni dell’esperienza, come anche attraverso la produzione di sintomi con una funzione riequilibratrice.
Non è convincendosi che i sintomi prodotti siano distonici che si può operare una trasformazione, non è un’azione di condizionamento che può portare a modificare la rappresentazione che la persona ha di sé. Nei casi in cui la terapia cognitivo-comportamentale ha successo è perché, a sua insaputa, è riuscita ad intervenire su questa rappresentazione o temperandola o aggiungendo a questa un’altra più congruente o, e ritengo sia l’effetto più plausibile, innalzando il livello delle difese da certe rappresentazioni del Sé. Tuttavia la base sulla quale appoggia l’identificazione del Sé è difficilmente interessata da questi interventi in quanto la terapia cognitivo-comportamentale non coinvolge i sentimenti che sostengono la rappresentazione del soggetto. Pensare di sostituire il modello della mente di una persona con un altro più funzionale, oltre che essere un’operazione presuntuosa, è destinato all’insuccesso in quanto non riconosce il valore di quel modello per quell’individuo, che seppure può descrittivamente essere considerato disfunzionale rappresenta l’unica soluzione che la persona ha saputo trovare in quel particolare momento, nel tentativo di ricercare il migliore adattamento possibile agli stimoli sia interni che esterni del proprio ambiente psicologico. La riconsiderazione di questo ambiente non passa attraverso la destabilizzazione sistematica del medesimo bensì mediante un atteggiamento di tolleranza verso di esso che porti lo stesso paziente a riconoscerlo e ad accettarlo, in modo tale che lui stesso diventi consapevole di come la soluzione da lui trovata non sia più efficace ai fini del proprio adattamento e avverta la necessità di ricercare una risposta più adattiva rispetto a quella precedente, imparando a riconoscere gli impulsi, i sentimenti e i bisogni che gli appartengono e che sono all’origine del suo sentimento di identità e di una congrua rappresentazione del Sé.